Paolo Macry

Va pensiero
di Paolo Macry

Camaleonti

di

“È ricco?”, domandano a Paolo Cirino Pomicino. E l’ex (potente) ministro del Bilancio: “Non ho nulla. Neanche la casa, che è di mia moglie”.

In questo paese, i leader politici non sono stati mai molto amati. Vittime dei loro difetti o, più spesso, bersagli di una battaglia mediatica dai toni asperrimi e talvolta violenti, accusati dei delitti più infamanti. Finirono sotto il tiro del Borghese o dell’Unità, dell’Espresso o della Repubblica, di Fortebraccio o di Forattini, uno dopo l’altro, De Gasperi e Fanfani, Nenni e Togliatti, Saragat e Moro. Antonio Gava? Un camorrista. Andreotti? Il regista della mafia. Craxi? Il capo della banda del buco.

Per non parlare dei leader della seconda Repubblica. Che hanno attirato (e tuttavia hanno anche consapevolmente aizzato) sulla propria persona una sorta di guerra civile delle parole. Berlusconi, naturalmente. Furono milioni gli antiberlusconiani e milioni i berlusconiani. Ma anche Fini, Bossi, Prodi, D’Alema. Quanto a Grillo, nei suoi spettacoli di piazza tormentava gli avversari con tutta la terribile efficacia del comico di successo. I grillini hanno costruito le loro fortune sul disprezzo della politica.

Frattanto, un movimento opposto - spesso proveniente dagli stessi ex-odiatori - rivalutava le proprie vittime. E così De Gasperi è diventato il più grande statista italiano. Togliatti, il pensoso comunista democratico. Andreotti, un geniale mediatore. Craxi, il riformatore visionario. Perfino Leone ebbe le scuse di coloro che l’avevano costretto alle dimissioni.

Succederà anche a Berlusconi? Per adesso, non sembra. L’intitolazione di Milano Malpensa all’uomo di Arcore sta suscitando un vespaio. Forse è arrivata troppo presto. Anche i camaleonti hanno bisogno di un po’ di tempo per cambiare opinione.