Da oltre un ventennio Napoli è un
organismo urbano boccheggiante:de industrializzata, privata di funzioni finanziarie, con una languente portualità. La chiusura dell’Ilva e di attività connesse aveva offerto alla città in declino l’opportunità di recuperare nell’area flegrea tre kmq in una posizione paesisticamente mirabile. Occasione di rilancio di primarie funzioni urbane; come avvenuto in altre città e metropoli d’Europa, dove la dismissione d’antiche attività ha significato l’avvio di rinnovi urbani che hanno a loro volta innescato processi di rianimazione economica.
Dall’
inizio degli anni Novanta, s’è fatto poco o nulla per l’insipienza delle amministrazioni locali. Ma fuor dalla ritualità delle lamentazioni, dall’intera classe dirigente napoletana non sono venuti contributi concreti, disponibilità ad intervenire con mezzi finanziari e lungimiranti ipotesi progettuali, magari col coinvolgimento di gruppi internazionali.
Cerca ora di intervenire il governo con un commissariamento di scopo, avviato tra vacue proteste locali.
La posta in gioco, decisiva per capire tempi e modi del recupero di Bagnoli,
è tutta urbanistica. Una legge del 1996, oltre a postulare bonifiche a terra e a mare, stabilisce che il litorale sia ripristinato com’era prima degli interventi operati dall’acciaieria. I più invasivi dei quali sono costituiti dal pontile, proteso in mare per circa un km, e dalla colmata di cemento che si ritiene contenga scorie d’altoforni e che, nel silenzio generale, l’Italsider realizzò nel mare. Rimuovere questa ed abbattere il pontile? S’intuisce che la “cabina di regia” governativa nutra perplessità su entrambe le cose. Dal 1996 ad oggi la rimozione della colmata è apparsa impossibile, non solo per i costi. Dove depositare milioni di metri cubi di materiali rimossi? E poiché l’impresa, sebbene folle, è prevista da una legge, solo un’altra legge potrà consentire scelte diverse, come il
“tombamento” cementiziodi tale
colmata. Con quali tempi? Un altro macigno che si para innanzi alla “cabina di regia” è il
piano urbanisticoche il Comune varò durante il sindacato
Bassolino. Prevedeva la collocazione di nuova edilizia residenziale e alberghiera lontana dal mare; campi sportivi, industrie tecnologiche non inquinanti e spazi verdi. Si disse che alla “
cura del ferro”s’intendeva sostituire la “
cura del verde”. Ideologicamente suggestivo. Avrebbe potuto aver concretezza a fronte di grandi disponibilità di risorse pubbliche; non c’erano allora né vi sono oggi. Con questo piano il Comune ha realizzato la cosiddetta
porta del Parco, un
auditorium, un
“centro benessere”: invecchiano inutilizzati tra i ruderi della dismessa acciaieria. Quanto ai suoli per residenze, andate deserte le aste bandite per offrirle ai privati, s’è capito che il piano vigente non li rende appetibili. Così che nel tempo è fallita anche la società comunale preposta alla ristrutturazione dell’area. La conclusione è che per avviare qualcosa di concreto la “
cabina di regia” dovrà mettere mano anche ad una
revisione del piano vigente.
All’inizio del Novecento Napoli scelse il suo futuro risanando i luridi quartieri del colera ed industrializzandosi. Fu sconfitta l’ipotesi di farne solo una “città d’alberghi e musei”. E fu un bene. Oggi la prospettiva turistica pare sia divenuta l’unica perseguibile. Ma anche questa prospettiva, per risultare davvero salvifica, presuppone che nella plaga di Bagnoli, tra Posillipo e il mare, si sappia e si voglia realizzare una
città nuova.
© Ernesto MazzettiDocente e giornalista