Nella bottega al primo piano con vista su San Domenico Maggiore il lavoro tenace delle lime definisce il flusso inesausto del divenire. In questo piccolo mondo antico ricavato tra i vicoli del centro prendono vita ogni giorno mandolini, mandole, mandoloncelli e chitarre, strumenti indispensabili alla musica del popolo. «A mio nonno, però, il fatto che la canzone si fosse appropriata del suo strumento dava un po' fastidio. Infatti brevettò la "mandolira" e la "mandolarpa", rivolte ad un pubblico di più alto ceto», confida il signor Raffaele Calace, 76 anni, che dal fondatore ha ereditato il nome, il cognome e la responsabilità di un marchio rispettato in tutto il mondo. Sarà lui, tra poco più di un mese, a condurre con la figlia Annamaria l'azienda di famiglia nata nel 1825 al traguardo dei due secoli di vita.
Sotto il suo sguardo, gli artigiani sagomano il legno, lo cesellano in curve larghe che danno volume alle corde, lavorano l'acero a colpi di fresatrice, intagliano listelli di palissandro fino a ridurli alla misura della perfezione, perpetuando, in una danza che non conosce tregua, una sapienza manuale che si tramanda da cinque generazioni. «La tecnica per costruire la cassa armonica è rimasta uguale a quella di duecento anni fa: sulla sagoma madre vengono incollate e rastremate le doghe che danno la forma allo strumento», spiega l'erede di questa nobile dinastia di liutai, mentre i suoi cinque dipendenti trasformano la materia in un prodigio che si chiama creazione.
Il tono è quello di chi descrive un incantesimo: «Il legno lo contemplo, a volte è come se mi parlasse. Sono uno studioso, osservo le fibre per capire come suoneranno. L'attimo in cui per la prima volta pizzico le corde di un mio strumento, avviene una magica metamorfosi: quell'insieme di fascette lignee finemente sagomate, curvate ed incollate, vibra ed emette le sue prime note, con una timbrica che è sempre unica per ogni strumento», racconta il signor Calace. «Alla mia età, continuare a fare questo mestiere non mi pesa affatto. Questa è la mia vita», confessa, facendosi interprete di una passione capace di arrivare molto lontano. «Spediamo in Giappone e negli Stati Uniti, in Africa e in Groenlandia», racconta l'erede. Eppure, nella Napoli liofilizzata che sulla grande tavola imbandita a uso e consumo dei turisti sparge a piene mani folklore e emozioni precotte, la bottega di Calace è una gemma nascosta.
A Napoli il turismo è l'asso pigliatutto. Settori produttivi come il commercio, l'artigianato e l'industria scontano un rapporto di forze squilibrato?
«Non c'è dubbio, il rapporto è assolutamente squilibrato. Il nostro laboratorio è a pochi passi dalla Cappella Sansevero, siamo nel centro di questa invasione. Una volta l'artigianato di qualità era fondamentale per Napoli: molti turisti venivano anche per questo, al punto che tanti anni fa costituimmo una federazione che si chiamava Artigianapoli, con sede a piazza del Gesù. Organizzavamo mostre di livello notevole che riscuotevano molto successo, ad esempio nel salone della Camera di Commercio. Ora è tutto cambiato, per partecipare a queste esposizioni ci chiedono soldi, l'artigiano aspetta solo il cliente che lo conosce e viene di proposito a cercarlo. Sì, qualcuno che sta fuori alla Cappella Sansevero a fare la fila poi viene da noi, ma solo perché ci ha visti passando ed è appassionato di mandolino. Tra questi c'è anche chi acquista. Lo stesso vale per altri artigiani bravissimi, ma sono episodi isolati. È difficile che chi viene col bus dalla Marina si fermi e possa accedere a opere d'arte come le sculture di Pinfildi e dei fratelli Scuotto, che sono tra i migliori incisori di Napoli, o di Lello Esposito».
Prima com'era?
«C'era un discorso di turismo culturale: una decina di anni fa le navi da crociera mi contattavano per organizzare delle visite, poiché era d'obbligo per chi veniva a Napoli vedere l'artigianato di tradizione».
Sono cambiate le scelte dei tour operator?
«I tour operator fanno quello che chiedono i turisti. Oggi qui arriva un turismo usa e getta, e i tour operator assecondano le richieste della massa, che va trovando la pizzetta, il cuoppo, il folklore, allora quello che abbiamo da offrire non va più bene».
Da quanti anni siete attivi?
«L'anno prossimo la nostra ditta compie 200 anni. È una lunghissima storia legata ai Borbone. Il mio trisavolo era il capo dei carbonari e per questo fu condannato a morte, deportato a Napoli come prigionieri di guerra e trasferito nel carcere di Procida dal piccolo paese in provincia di Potenza in cui era nato, dove ancora oggi c'è un palazzo nobiliare, Palazzo Calace, che porta il suo nome. Quando fu nominato re Franceschiello (Francesco II di Borbone, ndr), come da tradizione dei Borbone, il nuovo sovrano concesse la grazia a tutti i condannati a morte. Lui era già un musicista e si mise a costruire mandolini a Procida. Le prime tracce le abbiamo con il figlio Antonio Calace, che dal 1845 circa cominciò a costruire mandolini barocchi molto apprezzati. Al punto che decise di lasciare Procida per trasferirsi a Napoli, in vicolo all'Università, nella zona di Mezzocannone, molto vicino a dove siamo noi oggi. Lì avviò una fiorentissima attività. Il suo secondogenito, Raffaele Calace senior, mio nonno, fu il grande del mandolino. Era un mandolinista eccezionale, da compositore scrisse oltre 3000 pagine anche con parti molto difficili e fu direttore della rivista "Musica moderna". Lui cominciò a rivedere il mandolino barocco, pensato per un ambiente silenzioso quale era quello dell'Ottocento, per progettare il mandolino moderno, che meglio si adattava alle nuove esigenze. Ideò per la cassa armonica un sistema a doppio fulcro, che poi brevettò, che conferiva allo strumento il suono tipico, ondeggiante del mandolino, portando da 17-18 tasti a 29 tasti, una quinta sopra la seconda ottava, il che permetteva di ottenere un bellissimo effetto di glissato, raggiungendo con un tremolo molto veloce note acutissime, tenendo la nota bassa sempre in evidenza. Mio nonno ha scritto delle opere bellissime, che sono ancora un riferimento. Quando andò in Giappone, tenne un concerto a corte alla presenza del reggente Hirohito, all'epoca considerato come un mito, che gli consegnò personalmente un diploma».
Il Giappone è ancora oggi uno dei vostri mercati di elezione.
«Sì, da quel momento abbiamo avuto sempre rapporti eccezionali col Giappone, dove continuiamo a spedire molti mandolini. È il nostro mercato principale, forse il marchio Calace laggiù è più conosciuto che a Napoli, tant'è che le vendite sono alimentate in buona parte dai contratti sottoscritti dal nostro distributore in Giappone».
Avete mai pensato di lasciare questa zona? Il turismo potrà mai buttare fuori il vostro laboratorio dal cuore antico della città?
«Nei vari passaggi generazionali, la ditta Calace ha cambiato una ventina di botteghe. Lasciato vicoletto Università, il laboratorio è stato per tanti anni a via Chiaia, dove c'era un atelier molto elegante. Poi siamo tornati in centro e, dopo un periodo a Materdei. Cinquant'anni fa comprai la bottega dove siamo adesso. Il problema del turismo non ci tocca: i locali sono di nostra proprietà, e lavoriamo molto sia con internet che con i mandolinisti italiani: al Conservatorio di San Pietro a Majella quasi tutti hanno i mandolini sono Calace. Chi suona ad un certo livello, ha un rapporto fisico col mandolino e vuole uno strumento capace di garantire una voce e una sonorità adeguate, il che si traduce in un alto grado di espressività. È quell'alchimia a produrre poi le esecuzioni superbe dei grandi maestri. Per ottenerla, ci vuole un mandolino costruito a mano, fatto bene, e chiaramente uno strumento del genere ha i suoi costi. Ma chi è appassionato, sa che ne vale la pena. Grazie alla canzone napoletana, che è ancora oggi molto amata nel mondo ed è il traino per i nostri strumenti, oltre che in Giappone, vendiamo in Francia, in Svezia, negli USA, in Corea del Sud, in Africa, in Alaska. Posti con climi molto diversi, per cui abbiamo prodotto i modelli "Annamaria" e "Ripa", che sono particolarmente robusti, progettati per resistere a sbalzi di umidità e temperatura e a viaggi che sono stressanti per il legno. Anche se non posso nascondere che la crisi ha colpito anche noi. Vendiamo ancora, ma non sono più i numeri di una volta. C'è poco da fare, la musica è una cosa bellissimo, ma purtroppo quando il bilancio familiare si stringe, si taglia lì. Per questo abbiamo ridotto un po' l'organico, ma continuare è un fatto istintivo, ho cominciato con mio padre che portavo i pantaloni corti e ancora oggi vedere un mandolino ben riuscito, che suona bene, mi riempie di soddisfazione».
Oggi tra turismo da una parte e commercio e artigianato dall'altra esiste un conflitto di interessi?
«Sì. Il turismo tende troppo alla velocità e dà poco spazio all'artigianato di livello. Se si promuovessero visite tra i maestri artigiani, si realizzerebbe un incontro tra gli interessi dei due settori».
I grandi flussi di visitatori hanno modificato anche l'anima di Napoli?
«Lei è troppo gentile a dire che l'ha modificata, l'ha stravolta. Intorno al mio laboratorio c'erano una decina di artigiani che mi aiutavano. C'era un torniere bravissimo, un falegname che faceva gli intarsi, un altro che mi dava una mano a fare le casse armoniche. Quell'indotto di piccoli artigiani che mi davano una mano sostanziosa è completamente sparito. Non c'è più nessuno, tabula rasa. Un disastro. Nei loro locali oggi ci sono bar e pizzetterie. D'altro canto, oggi se devi far riparare qualcosa a casa e vuole trovare un vetraio, un fabbro, un tappezziere, incontra grosse difficoltà. Intanto, fioriscono i b&b: solo nel palazzo in cui abbiamo la bottega ce ne sono quattro. Questo stravolge le dinamiche del condominio e alla fine snatura il centro storico. Questo è un grave difetto di un turismo troppo spinto e non indirizzato bene».
Di fronte a questo patrimonio di mestieri e di saperi che si va perdendo, come si inverte la tendenza?
«Invertire la tendenza in un momento di crisi come questo non è facile. Per cominciare, si potrebbe tornare a fare come una volta, portando a bottega gli studenti che hanno un'attitudine al lavoro manuale e che scelgono questo percorso. Era un sistema che funzionava, tanto che tutti i miei dipendenti sono arrivati qui attraverso un percorso del genere. Nel mio caso, avendo un papà artigiano, stavo sempre in laboratorio con lui, il mestiere l'ho imparato giorno per giorno. Così quell'eredità diventa un fatto innato, fa parte del tuo dna. Oggi questo affiancamento non c'è più, ed è un grave danno».
© Davide Cerbone