L'allarme: «Luna park Napoli, così stiamo svendendo la città»

Cercola, esperto di marketing territoriale: «Governare il turismo invece di subirlo, ristabilire l'equilibrio con gli altri settori e puntare sulla logistica»

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È una Napoli posticcia, che scimmiotta sé stessa fino a corrompere il proprio midollo, quella che Lello Cercola, oggi direttore del master di Marketing alla Ipe Business School e consulente strategico per diverse aziende, inchioda in venticinque righe indignate e affilate, affidate alla tribuna social. Un pugno di parole che hanno il sapore dell'invettiva all'indirizzo di una città, la sua, che ricalca all'infinito i cliché più logori ad uso - e soprattutto a consumo - dei visitatori, svendendo il capitale più prezioso in nome di un'esperienza a buon mercato da consegnare al turista assetato di pizzette & folklore.

Ne viene fuori il ritratto di un luna park caciarone e sguaiato in cui il buon gusto precipita vertiginosamente, vittima di una gara al ribasso che pur di compiacere il visitatore sacrifica sull'altare della ruffianeria la storia, le tradizioni, la verità di un popolo. E compromette, così, la sua sostanza più autentica. Non solo quella culturale e antropologica, ma anche quella produttiva: attività commerciali, botteghe artigiane, prospettive industriali. Insomma, una contraffazione in piena regola dello spiritus Neapolis ammantata dalla promessa di una nuova, salvifica prosperità.

«Ieri sera mi sono trovato di fronte a una fila interminabile a piazza Carità: famiglie, giovani e turisti in attesa di cenare da Nennella alle 18.30 (!!!)», esordisce il post che il professore, già docente di Marketing territoriale alla Federico II e alla Vanvitelli e presidente della Mostra d'Oltremare dal 1998 al 2010, pubblica su Facebook, accompagnato da un video. «Mi è tornato in mente il periodo in cui ci lamentavamo per la mancanza di turismo a Napoli, o quando le nostre piazze erano desolate a causa dei lockdown, con un comparto turistico-culturale in crisi a causa di chiusure e restrizioni. Ho cercato di giustificare questa scena, pensando che anche in altre città i turisti si accontentano spesso di street food o di cibi di bassa qualità per risparmiare, ma non sono riuscito a farlo. Ho sentito il bisogno di catturare quel momento. Purtroppo, l'area (ristretta) della città invasa dai turisti si è trasformata in un tappeto di bandiere azzurre, con immagini di Maradona ovunque, tavolini abusivi disseminati per strada, souvenir economici e una folla impressionante di persone che consumano qualsiasi cosa: cuoppi di fritti, caffè sospesi, gelati, panini con mollica o no, genovesi, ragù, pasta e patate con provola, babà, taralli, sfogliatelle, kebab, graffe, pizze, pizze, pizze... e ovunque ci sono rifiuti e puzza di fritto», va avanti nella sua denuncia il docente. «Questa nuova cultura collettiva, focalizzata esclusivamente sull'aspetto alimentare, rappresenta un fenomeno che coinvolge l'intero Paese. Tuttavia, mi sembra che qui si sia esagerato nel promuovere alcune trattorie come una "neapolitan experience", allontanandosi dalla vera tradizione. Lasciamo questa paccottiglia ai turisti e a chi visita la città superficialmente, ma noi, che ancora usiamo il buonsenso e la ragione, non dovremmo arrenderci», prosegue Cercola, aggiungendo un auspicio che è anche un appello: «Dovremmo chiederci cosa sia successo negli ultimi anni, se ciò da cui cercavamo di liberarci da adolescenti è ora diventato un elemento identitario. E dobbiamo interrogarci sul destino delle lezioni impartiteci dai nostri maestri, preti e parenti saggi. Dovremmo anche cercare di capire come certe volgarità siano state normalizzate nel nostro linguaggio e nella nostra cultura. Oggi il murale di Maradona attira più visitatori della Cappella di Sansevero o delle Sette opere di Misericordia di Caravaggio, e la musica neomelodica ha preso il posto della canzone classica napoletana. La mia preoccupazione - conclude l'esperto di marketing - resta la stessa: quando e perché il degrado è stato confuso con la tradizione? Ciò che un tempo ci faceva vergognare è diventato motivo di orgoglio, e questo ci invita a riflettere: dove, quando e perché abbiamo sbagliato?».

Professore, lei ha chiuso il suo piccolo resoconto affermando che «dovremmo chiederci cosa sia successo negli ultimi anni». Ecco, che è successo?

«Il mio era uno sfogo molto leggero, un'amara considerazione sull'eccesso di turismo. C'è tanta gente fuori ai ristoranti come Nennella e anche alle Gallerie d'Italia, ma nessuno va a vedere Caravaggio: lì dentro ci sono le Sette opere di Misericordia, invece sono tutti in fila per vedere Wharol, visto e rivisto cinquanta volte. Ma è gratuito ed è pop. E migliaia di persone intasano via Toledo, una folla che mi angoscia. Non ce l'ho con Nennella, che esiste dagli anni '50 e nella sua sede era anche originale, ma ormai di quel posto ci resta il ricordo, sostituito da uno stile in cui devi mangiare e scappare via, modello McDonald's. Stanno rovinando e banalizzando una cosa che prevedeva una lentezza, allora mi domando: perché dobbiamo sempre nascondere la vera tradizione, falsificando tutto?».

Il turismo in questi anni ha modificato anche l'anima di Napoli? La sta snaturando?

«Sono gli effetti del famoso overtourism. Una volta c'era il viaggio culturale in Europa, ora il turismo si è massificato, lo sappiamo. Ma mi chiedo: è possibile che non si debba in qualche maniera gestire questo grande flusso? L'eccesso crea danni alla collettività, ai cittadini, per cui la capacità di attrarre visitatori diventa un boomerang: da un lato fa arricchire gli operatori, è vero, ma la gente in quel posto vive male. Se non c'è organizzazione, non ci sono vigili, ovviamente si crea il caos. Ricordo che nel marzo del 2017 Armando Brunini, allora amministratore delegato di Gesac, aveva dato incarico di elaborare il Piano strategico del turismo per la città, che si chiamava Destinazione Napoli 2020. C'erano con me il sindaco de Magistris, l'assessore alla Cultura Nino Daniele ed altri. Un lavoro da 150.000 euro che Gesac regalò al Comune, nella speranza che a Palazzo San Giacomo si avviasse il destination management, che significa scegliere un target e lavorarci sul piano della comunicazione e della pubblicità. Questo attrarrebbe un turismo diverso e creerebbe ricchezza. Ebbene, quel programma, che è ancora sul sito del Comune, è rimasto nei cassetti, non ha fatto un passo avanti».

Vuol dire che il turismo lo stiamo subendo?

«Certo, i flussi vanno programmati e gestiti. Il turismo spontaneo è pericoloso. Noi lo stiamo gestendo - anzi, non lo stiamo gestendo - senza un piano. È chiaro che tutto quello che ne consegue è negativo: i dehors che invadono i marciapiedi, i rifiuti, il degrado, l'anarchia, la mancanza di presidio del territorio, i mezzi di trasporto e i servizi insufficienti. Se tu non fai un piano, confrontandoti con le risorse che hai a disposizione e modulandolo di conseguenza, succede questo».

Oggi a Napoli tra turismo da una parte e commercio e artigianato dall'altra esiste un conflitto di interessi?

«Sì. Se fai funzionare solo una delle leve, è chiaro che non c'è equilibrio. La parola magica è questa: ci vuole equilibrio, altrimenti l'attrazione turistica diventa un boomerang e paradossalmente essere attrattivi è una cosa negativa. Tra l'altro, bisognerebbe capire come il Comune usa la tassa di soggiorno».

Come si fa a riportare il sistema in equilibrio?

«Esiste prima di tutto un equilibrio nello spazio fisico, rispetto al territorio. Si tratta di distribuire quel turismo che abbiamo concentrato in un'area piccolissima, lavorando sui flussi. Qualche giorno fa, ad esempio, ho portato dei visitatori al Virgiliano, al Ponte dell'Italsider, alle Grotte di Seiano, e sono rimasti incantati. Ma ci vuole equilibrio anche nei contenuti, è una questione culturale. Io non ce l'ho con i must della cultura napoletana, che sono certamente l'arte, il cibo e la musica, però li stiamo facendo degenerare: a me, che ho seguito da vicino Lia Rummo, tutti quei murales un po' falsi non piacciono. Non dico che deve venire per forza Kiefer, però teniamoci a un certo livello. Invece mi pare che ci stiamo un po' sbracando: lo stesso Lello Esposito, che è bravissimo, viene venduto in tutte le salse. Se parliamo di cibo, poi, si apre il baratro. Abbiamo sempre avuto cibo di qualità e anche economico, la pizza in questo senso è stata un fattore di attrazione: i miei nipoti che venivano da fuori impazzivano, perché con 10 euro pagavano pizza e coca cola. Però a un certo punto ci siamo ritrovati pizzerie dappertutto, e questo fenomeno non l'abbiamo più mantenuto. Qualcuno ha iniziato ad alzare i prezzi facendo pizze elaborate, per cui si è creata una dicotomia fra il basso e l'alto. Mi domando: perché? Dovremmo piuttosto migliorare la qualità a prezzi equi. Lo stesso vale per la musica: sarò snob, ma sentire su TikTok quei neomelodici mi fa schifo».

Sappiamo bene, peraltro, che alcuni di quei personaggi affondano le loro radici nel terreno marcio della malavita.

«Esatto. C'è un tema forte della malavita che "azzuppa il pane" sul turismo, sulle attività a nero, su aperture e chiusure di negozi che servono a ripulire danaro sporco. Insomma, non è tutto oro quello che luccica. Si dice che il turismo ha ripulito posti come i Quartieri spagnoli, ma non è così. La criminalità ha molti interessi allo sviluppo di questo turismo che produce locali ignobili che ripropongono sempre le stesse cose: la pasta e patate con la provola, la genovese, il ragù. Basta, non se ne può più! Tra l'altro, così facendo svalutiamo anche quelle cose meravigliose che appartengono alla nostra tradizione».

Dalla sua invettiva emergono i contorni di un'identità adulterata, contraffatta.

«Sì, è tutto falso. In nome della cosiddetta "neapolitan experience", che propone una tradizione finta, forzata, stiamo abbassando la qualità in tutti i settori, anche nel commercio: a via Toledo ormai ci sono solo pizzetterie, e lo stesso sta succedendo a via Chiaia. Tutto questo dipende anche dai social, che hanno rovinato tutto. Ormai i ragazzi vivono solo su Instagram e in particolare TikTok, che ha creato artificialmente e imposto personaggi penosi e diseducativi. C'è quello che fa i panini, quell'altro che rompe i vetri delle auto, la ragazza che mette le cover ai telefonini. Il sistema è saltato completamente: se i ragazzini vedono che la gente si arricchisce così, non ci dobbiamo meravigliare che siano disorientati, sbandati. E il Comune ci sguazza, perchè mette il logo "Napoli" per le foto da pubblicare su Instagram. Siamo sicuri che la competizione debba essere sempre abbassata? Si crea una narrazione che fa breccia in questo pubblico medio-basso e lascia l'amaro in bocca. Una narrazione incompleta, fuorviante, che crea confusione. Ormai molta gente viene qui per poche ore, giusto per la curiosità di verificare molto velocemente quello che ha visto o letto su internet, ma senza approfondire. Esattamente come si fa in un parco dei divertimenti, dove appunto tutto è falso. Dopodiché, come in ogni sagra che si rispetti, c'è il grande buffet dove si mangia 24 ore su 24, ma non c'è una sola cosa che ti resta impressa. Insomma: quantità, quantità, quantità».

Come si deve intervenire per arginare questa deriva?

«Torniamo al tema dell'equilibrio: è necessario anche tra i vari tipi di turismo. I flussi vanno segmentati: l'incoming d'affari non può convivere con quello di massa. Siamo sicuri che con questa invasione di visitatori non penalizziamo altri segmenti? Il turismo congressuale, per dirne una, ha bisogno di tranquillità, di alberghi liberi. Qualche giorno fa avevamo un convegno sui beni confiscati e non abbiamo trovato una stanza libera. Bisogna pianificare, decentrare, cercare e creare spazi nuovi ed eventi per alleggerire il centro, come si fece tanti anni fa col Neapolis Rock Festival a Bagnoli».

Il processo di gentrificazione espelle dal centro storico non solo gli abitanti, ma anche commercianti e artigiani di lungo corso. Mentre il turismo va a gonfie vele, c'è un patrimonio di mestieri e saperi che si va perdendo, e il commercio di prossimità, come l'industria manufatturiera, vive un momento difficile. C'è da preoccuparsi?

«Certo. Napoli era a Est e ad Ovest una città industriale, ora abbiamo smobilitato tutto. C'era il commercio, che ora è in difficoltà, aggredito dal turismo di massa. Se aggiungiamo il fatto che ci sono un po' di soldi facili della criminalità, è chiaro che chi faceva i guanti o gli ombrelli e ormai è anziano, cede il passo e chiude l'attività, lasciando il posto al bar, alla pizzetteria o alla friggitoria fetente. Per fortuna hanno chiuso gli chalet, e quello è stato un grande colpo. Per il resto, però, ognuno va per i fatti propri: ombrelloni e arredi di tutti i colori, il trionfo del cattivo gusto, non se ne può più. Ma io dico: Non possiamo far salire un po' il gusto, la qualità? Poi, certo, la città è ospitale, allegra, vivace, ma dobbiamo avere anche un po' di spirito critico. Ci resta la logistica, che è uno dei pilastri più forti, con il porto, l'aeroporto e gli interporti di Nola e Marcianise. Questo ci riporta un po' al ruolo di snodo che la nostra città ha avuto nel Regno delle Due Sicilie rispetto alla Puglia, alla Calabria, allo Stato Vaticano. Ma ripeto, si deve scegliere. Se la logistica è fondamentale, devi fare strade e autostrade che ti portano rapidamente dal porto all'interporto. Non puoi mettere i mezzi su una strada dove il traffico è bloccato. Il turismo può fare il suo, ma quando va tutto bene rappresenta il 10-15 per cento del Pil cittadino».

Guardando al di là della risorsa turismo, come si tutela e si sostiene il sistema produttivo della città?

«Non dimentichiamo che noi non abbiamo un piano strategico. Ci mancano, in sostanza, le colonne sulle quali costruire la città, da non confondere con il piano urbanistico. Quello ce l'abbiamo, io mi riferisco a quello di sviluppo economico, sociale e ambientale, dal quale discendono poi i piani di azione e i piani di settore. Si tratta di fare delle scelte. Torino, che era una città grigia, ha scelto di abbandonare l'automotive manifatturiero per puntare sugli eventi e sul cinema, utilizzando le strutture che furono create per l'Olimpiade invernale del 2006. Anche Genova ha intrapreso una strada precisa, scegliendo il mare, e ha organizzato la Fiera del mare, il Salone della nautica, sta valorizzando il ruolo del porto, ha orientato in quella direzione le facoltà di Economia e Ingegneria: tutto lavora sul mare e tutto è coerente con questo tema. Io mi domando: i nostri pilastri quali sono?».

Napoli ha scoperto i turisti, i turisti hanno scoperto Napoli. Ma i flussi non sono programmabili. Come si trasforma il turismo in un'industria in grado di proiettare la città verso uno sviluppo sistemico, coniugandolo con le altre leve economiche?

«Bisogna domandarsi: quali sono le nostre vocazioni? Qual risorse abbiamo a disposizione? Quelle risorse, messe insieme, creano la vocazione, che può essere legata alla bellezza, al paesaggio, al tempo libero. Ma ci dev'essere anche una vocazione produttiva. C'è poi il tema spesso sottovalutato della formazione in campo turistico: dal tassista al cameriere al barista, questa formazione professionale dove sta? Alla ex Base Nato di Bagnoli, un'area enorme che la Regione si è ritrovata nel proprio patrimonio per effetto dello scioglimento di un Ipab, un Istituto pubblico di assistenza e beneficenza, ci sono spazi enormi e molto accoglienti anche con la disponibilità di tante camere. Da una parte si potrebbe organizzare una ricettività di alto livello rivolta anche a manager o professionisti che vogliono soggiornare per diversi mesi in città e dall'altra potrebbero sorgere una scuola superiore, un'università e un master sul turismo, creando un polo che alimenterebbe la zona Ovest, che attende sempre una destinazione. Come sempre, è una questione di visione e di scelte. Invece ci si mette un po' una cosa, un po' l'altra, senza fare una scelta chiara e decisa. Molte aziende si stanno spostando verso il Casertano perché l'area Est non la considerano appetibile, ma questo è sbagliatissimo perché in questo modo non sì fa altro che svuotare la città e scaricarla fuori. Lo stesso vale per il manifatturiero, mentre qualcosa di buono nell'area orientale si potrebbe fare, così come a Bagnoli, dove doveva nascere un polo tecnologico dell'ambiente che stiamo ancora aspettando».

Lei ha scritto che dobbiamo interrogarci sul destino delle lezioni che i nostri padri ci hanno consegnato. Se spinge lo sguardo in avanti, qual è il destino di Napoli? Come vede questa città se spinge lo sguardo verso l'orizzonte?

«Certamente è una città grande, che come tale si alimenta da sola e avrà sempre un suo ruolo. Napoli somiglia al suo Vesuvio: sotto c'è la lava che bolle, noi dovremmo far eruttare le energie di questa città verso dei canali. Il turismo può certamente essere un bel filone se gestito bene, tenendo conto dei vari segmenti, ma secondo me non è la priorità. La risorsa prioritaria è la logistica. Il porto è la prima azienda del Comune, vale tra il 7 e l'8 per cento del Pil. A questo porto bisogna dare spazio, bisogna collegarlo bene, bisogna sorvegliarlo bene. Oggi è affogato e non è adeguatamente connesso ai due interporti, all'aeroporto, al Cis, al Tarì. Questo dovrebbe essere secondo me un grande filone che ci caratterizza. Poi abbiamo la fortuna di avere le università. Va bene l'innovazione, ma dobbiamo creare le condizioni per non far fuggire i nostri ragazzi, altrimenti quelle risorse perdiamo. Dobbiamo creare un luogo dove le competenze maturate nel corso di studi possano atterrare, e non ci si può limitare al piccolo spazio di Città della Scienza. E bisogna crearlo in città».