Hai voglia di provare a scansare l'argomento: gira e rigira, si finisce sempre lì. Per quanto si voglia gettare lo sguardo «oltre il turismo», se l'epicentro dei ragionamenti è Napoli, prima o poi ci si ritrova invischiati nella materia più calda che la città, da qualche anno a questa parte, maneggi. Il tema è tanto ineludibile da ricondurre a sé il discorso pubblico anche se si parte da punti cardinali apparentemente lontani.
D'altra parte, è (anche) per effetto dell'overdose di visitatori che le botteghe artigiane del centro antico - manifatture di borse, guanti, scarpe, ceramiche, ombrelli, capi di alta sartoria - sono in via di estinzione, ricacciate dalla fame di spazi da destinare al grande business che ruota intorno al vitto e all'alloggio dei turisti. Per rispondere a quella stessa vorace domanda, tra i vicoli la serialità ha rimpiazzato la manualità e l'originalità ha ceduto il passo ad una mediocrità appiattita sulle esigenze del consumo di massa, realizzando una metamorfosi che fa di Napoli, santuario "local" per eccellenza, un posto sempre più "global".
Gabriella Colucci, che nel 2004, dopo una lunga esperienza in California, è tornata nella sua città natale per fondare Arterra Bioscience, azienda attiva nel settore biotech quotata in borsa dal 2019, un'idea per rimediare allo squilibrio tra le leve produttive ce l'ha, e si può sintetizzare più o meno così: invece di eluderlo, il turismo bisogna includerlo. La ricercatrice-imprenditrice, che nel 2018 si è aggiudicata il Premio donna innovatrice europea, assegnato alle «donne di successo» che hanno «portato sul mercato le loro idee innovative» grazie ai fondi del programma europeo Horizon 2020, propone un sostanziale cambio di prospettiva che potrebbe convertire il conflitto tra interessi oggi contrapposti in una virtuosa convergenza che farebbe bene a tutti.
A Napoli il turismo è l'asso pigliatutto. Settori produttivi come il commercio, l'artigianato e l'industria scontano un rapporto di forze squilibrato?
«Direi di sì. Da cittadina, e non da imprenditrice, vedo che svendiamo la nostra città in una maniera pazzesca. Ne stiamo stravolgendo l'immagine e l'identità, il tutto in cambio di due euro a pizza. Avevamo delle caratteristiche ben precise che abbiamo sacrificato. Adesso il nostro business primario è lo street food, il che mi sembra veramente patetico. Negli ultimi anni questa città è diventata un mercato del cibo di basso profilo, una specie di kasbah. Eppure nel corso dei secoli Napoli ha dato e ha detto tanto, e continua a farlo, anche se in modo sotterraneo, non evidente».
Come si fa a superare la stagione dello spontaneismo, trasformando l'appeal della città in un'industria capace di garantire uno sviluppo sistemico?
«Il settore andrebbe professionalizzato, un compito che tocca alle scuole. Le istituzioni possono rendere la città più ordinata e più organizzata al livello urbanistico, ma non possono svitare la testa dei napoletani. Da un lato abbiamo ragazzi che sono bravissimi ma hanno poca fiducia nelle proprie capacità, dall'altro abbiamo l'80 per cento della popolazione costituita da persone di un'ignoranza enorme e che sono di un'arroganza spaventosa. Quelli sono la disgrazia della città. Bisognerebbe far capire loro che con un minimo di cultura, di organizzazione e con un grosso rispetto della città, la cosa che oggi più manca, andrebbe molto meglio per tutti».
Oggi a Napoli tra turismo da una parte e commercio e artigianato esiste un conflitto di interessi?
«Assolutamente no. Il turismo è in conflitto di interessi col cittadino, che ha una città meno vivibile. Ma allora si convertano le ex zone industriali in posti adatti ad accogliere negozi e botteghe. Le aree dismesse possono diventare posti in cui gli artigiani possono fare rete e offrirsi al turismo. Tra l'altro, se stanno nel centro storico non sbarcano il lunario perché i fitti sono alle stelle e i potenziali clienti non ci vanno perché è scomodo raggiungerli. A Lisbona, LX Factory è un vecchio spot industriale dato ad artisti, artigiani, e piccoli imprenditori che sta un poco fuori città, proprio come l'area orientale di Napoli. Abbiamo tantissimi posti abbandonati che potrebbero essere utilizzati in questo senso: penso all'ex Lanificio, che anche noi stiamo finanziando, o al museo di Jago. Se si fa una cosa analoga dedicata per esempio ai guantai napoletani più importanti dove c'è la possibilità di avere spazi, aree esterne pulite e facilità di accesso per i visitatori, turismo e artigianato diventano sinergici, non c'è alcun contrasto. Insomma, se espelli dal centro storico gli artigiani, devi dare loro una possibilità alternativa, realizzando centri di eccellenza magari divisi per settore: dalle calzature alla sartoria fino ai giovani artisti, pittori, scultori. In altri Paesi lo spazio urbano si sviluppa in questo modo: vecchi opifici vengono trasformati in centri di accoglienza e di esposizione per giovani artisti. Stanno facendo lo stesso anche in città molto più difficili della nostra, come Nuova Delhi. È una questione di organizzazione, di visione e di pianificazione, che qui mancano».
Napoli ha degli assi nella manica anche sul piano produttivo?
«Certo. Come ho detto spesso, questa potrebbe essere la San Diego d'Europa. Ha un bacino di produzione di cervelli molto importante, potendo contare su buone università che producono ragazzi bravi. E poi c'è la fame, il che è brutto da dire, però dalle nostre parti i ragazzi hanno tanta voglia di fare il loro lavoro restando nella propria città, una città che tra l'altro costava poco. Fino a poco fa, a Napoli si viveva con una cifra non comparabile a quella che serviva per avere la stessa qualità di vita a Milano, per non parlare di San Diego. E la bellezza del luogo è superiore a quella di città europee come Barcellona, che stanno diventando un polo di attrazione molto importante per la tecnologia. Quando mi affaccio da via Pacuvio, dove abito, mi dico: "è un paradiso!". Napoli ha la cultura e uno spirito creativo molto alto, e quando si associano cultura e creatività, la miscela è esplosiva. Il problema è che poi a Napoli, come in Italia e in particolare al Sud, c'è scarsissima self confidence. Quello dell'autostima è un grande neo, e la nostra accademia spinge ancora di più in questa direzione: dalle aule escono dei ragazzi avviliti, che pensano di valere pochissimo e quindi sono disposti a vendersi per nulla. Ricordo che in America il problema era opposto. I ragazzi di 17-18 anni, per quanto preparati, ascoltavano le lezioni coi piedi sul banco e il cappellino calzato al contrario, bevevano Coca Cola e sputavano la gomma a terra con la spocchia di chi può far tutto. Veramente insopportabili».
Perché i nostri ragazzi sono così dimessi?
«Non saprei. Credo dipenda dalle famiglie, dalla scuola e dall'università. Non viene data loro l'opportunità di mettersi alla prova: non fanno seminari, non imparano a parlare in pubblico, non possono esprimere loro stessi se non con gli esami, che peraltro molte volte sono scritti. Bisognerebbe renderli finalmente attori e non solo spettatori. Già metterli su un palchetto, anche davanti a una piccola classe, e farli parlare sarebbe importante».
Dal 2019 la sua azienda è quotata in borsa. Significa che a Napoli si può fare industria con successo?
«Sicuramente, non c'è proprio alcun ostacolo. Anzi, il fatto che la città sia bella, che i ragazzi che assumi sono bravi e che la vita costa ancora meno che in altri posti è un'agevolazione. Certo, non avrei mai pensato alla cosmetica, invece è diventato uno sbocco concreto poiché è il mondo che sta più avanti di tutti, è quello che rischia, che fa il trend setter. Se ultimamente nel mondo si è iniziato a parlare di sostenibilità, la cosmetica era avanti già 15 anni fa. Non producendo un bene di prima necessità, questo settore si può permettere il lusso di mettere dei paletti molto alti anche in questo senso».
La città è capace di attrarre nuovi investimenti?
«Di questo non sono sicura: pur avendo portato alla quotazione in borsa la mia società, quello della finanza non è un mio mondo. Non lo capisco, ha logiche molto diverse dalle mie. Abbiamo tanti ragazzi del Sud che sono costretti ad andare a lavorare al Nord o fuori dall'Italia e, dopo il Covid e la Brexit, ho iniziato a fare una politica sul rientro dei cervelli a Napoli: negli ultimi due anni abbiamo assunto 5 o 6 ragazzi che stavano lavorando a Milano, a Bergamo, a Oxford, a Brighton. Io la chiamo la "Brexit way out", dico loro: se in Inghilterra vi trattano male, tornate qui, per lo meno state a casa vostra».
Quanto è incoraggiante sul piano del dinamismo produttivo e dell'innovazione la presenza della Apple Academy nell'area a Est?
«Non mi sembra che Apple Academy e Napoli Est stiano attraendo molto. Sicuramente c'è una serie di imprenditori come Ambrogio Prezioso che mirano a far diventare questa parte della città, dove tra l'altro abbiamo sede anche noi di Arterra, più vivibile e più dignitosa. Purtroppo, però, per quanto si cerchi di fare rete, si riesce a fare ancora poco. Il terzo settore ha fatto cose bellissime, ma potrebbe farne molte altre se la gestione fosse affidata a cooperative sociali composte da persone della zona che possano trarre un beneficio dal miglioramento del decoro e dei servizi».
Come valuta lo scenario industriale campano?
«E chi lo conosce? Non ho contatti con gli altri imprenditori, non mi interessa il danaro, non mi interessa il potere, sono per indole molto più aperta al sociale. Io faccio ricerca scientifica in un settore molto particolare, che è il biotech. In più, è un biotech diretto a quello che io chiamo il settore "frizzi e lazzi", ovvero la cosmetica, che è il nostro business primario. I miei principali clienti sono nel mondo, non in Italia. E in Italia il mio partner è a Milano, nella "Cosmetic Valley", per cui conosco bene solo quel tipo di realtà aziendale. So, però, che molte altre aziende non investono in innovazione, quindi non investono in ricerca. È molto difficile convincere un'azienda italiana ad investire in ricerca, poiché si pensa che la ricerca si faccia per passione e quindi la si paga due lire. Poiché, al contrario, io faccio questo e vendo questo, ho pochissimi contatti, poche interazioni con le altre aziende. Ma per fare un buon prodotto, è necessaria la ricerca: questa cosa a molti non è ben chiara».
Lei ha lavorato per molti anni a San Diego: lì fare impresa e ricerca è più facile?
«No, per niente. In Italia abbiamo ancora il concetto del "piccolo è bello", cosa che non esiste altrove, e ovviamente soltanto il piccolo può essere molto agile, svelto, principalmente quando si tratta di innovazione. I grandi non lavorano nelle nicchie, ma sugli altissimi volumi. Al contrario, i piccoli lavorano sulle cose piccole: volumi ridotti, altissima marginalità, una cosa che le nuove tecnologie consentono. Per questo, secondo me i posti migliori dove fare ricerca sono quelli dove ci sono università buone, ragazzi che hanno voglia di lavorare e capacità creative. Caratteristiche che ti consentono di vedere i "buchi" del mercato nei quali si può trovare spazio».
Perché ha deciso di tornare in Italia?
«Innanzitutto, io sono fortemente europea. Stavo negli Stati Uniti controvoglia, perché ci dovevo stare, non perché amassi la California. Per carità, vivevo in un posto bello, ma anche noioso, senza cultura, molto piatto. In più, ho sempre considerato gli Stati Uniti uno Stato di polizia: lì c'è una libertà solo apparente. E poi fare il biotech negli Usa era difficile, c'era una grande competizione. Specie all'inizio degli anni 2000, era tutto concentrato lì, giravano capitali enormi e anche persone con grandi capacità. In Italia sono stata la prima a fare questo. Come avrebbe detto mio padre, qui faccio "il gallo sulla monnezza". Sono la più brava perché sono l'unica».
Tornare in patria, dunque, è stata la scelta giusta da ogni punto di vista.
«Sì. Prima di tutto volevo tornare in Europa, e a Napoli, che fa parte dell'area Obiettivo 1 definita dall'Ue, c'erano molti soldi disponibili per progetti di ricerca. Per me qui era tutto molto più semplice. Inoltre, nonostante una madre inglese, l'italiano è la mia lingua, mi faccio capire meglio, conosco la cultura e le persone, avendo studiato qui ho le connessioni con le università e con i professori utili per creare collaborazioni e assumere dipendenti. Tutti questi fattori mi hanno portato a dire: perché non tornare a Napoli? La vera difficoltà è stata convincere il resto del mondo del fatto che Napoli era il miglior posto dove fare impresa nel biotech. Molti mi hanno presa per pazza, poi nel lungo periodo ho dimostrato che avevo ragione. Oggi siamo l'unica azienda italiana del settore quotata in borsa».
© Davide Cerbone