Alle 15,32 del 15 luglio 1972, l’innesco di una serie di cariche esplosive avvia la demolizione controllata del quartiere Pruitt Igoe a Saint Louis nel Missouri, così come si può anche vedere in una memorabile sequenza del film Koyaanisqatsi. Un quartiere realizzato negli anni Cinquanta del secolo scorso per rispondere all’esigenze abitative della popolazione povera della città e che fu progettato da Minori Yamasaki, lo stesso architetto che, per una singolare e anche inquietante coincidenza, progetterà successivamente le Twin Towers a New York. La data di quella demolizione, decisa dalla municipalità perché il quartiere era divenuto troppo velocemente inabitabile per le persone che vi risiedevano, è stata simbolicamente considerata da qualche critico come un preciso momento di svolta, perché si riteneva potesse segnare la fine del modernismo architettonico e l’inizio di una nuova fase per l’architettura internazionale. Cominciano a entrare in crisi quei modelli insediativi che il Movimento Moderno aveva proposto negli anni precedenti, a partire dall’Unitè d’Habitation che Le Corbusier realizza a Marsiglia nel 1947. E mentre il dibattito internazionale discute su questi mutamenti di prospettiva, con un certo ritardo in Italia si affermano invece questi modelli urbani, dalGallaratese a Milano del 1967, al Corviale a Roma del 1972, allo Zen a Palermo nel 1970, alle Vele di Secondigliano, realizzate tra il 1971 e il 1980.
La grande dimensione nell’architettura urbana
È il concetto della grande dimensione, di un’architettura
urbana che, come i falansteri ottocenteschi del socialismo utopistico di
Fourier, si dichiara come organismo separato, autosufficiente e autonomo
rispetto alla città consolidata, ma che vuole comunque esprimere un
significato urbano forte, quasi monumentale. Non ci vorranno molti anni per
capire, anche da noi, che quel modello insediativo che esprimeva anche un
modello sociale, non funziona, in quasi tutti gli interventi e più o meno
per gli stessi motivi. La mancata realizzazione delle attrezzature
all’interno degli edifici e degli standard urbanistici previsti, la
difformità di realizzazione rispetto alle previsioni progettuali, l’assenza
di flessibilità distributiva degli alloggi anche per un’eccessiva rigidezza
strutturale e il mancato collegamento con il centro della città, sono
alcuni dei motivi più ricorrenti del fallimento. Le Vele di Scampia
rappresentano il caso più emblematico di quanto finora descritto.
Realizzate all’interno di un Piano di Zona per l’edilizia economica e popolare, in
attuazione della legge 167 del 1962, i sette edifici
progettati da Franz Di Salvo nel 1965 per un insediamento
residenziale di circa 6000 persone, hanno rappresentato senza dubbio per
Napoli un esempio innovativo di sperimentazione e di ricerca,nella
cultura architettonica di quegli anni.
Ma, nonostante le tante varianti peggiorative al progetto originario, come la riduzione della distanza interna tra i due corpi di fabbrica o i collegamenti trasversali realizzati in calcestruzzo e non in ferro, è tuttavia proprio quell’idea di città utopica, la città delle Vele, che non ha funzionato. Un approccio al problema della casa, specie per i ceti meno abbienti, che evidentemente non poteva essere risolto immaginando di realizzare grandi edifici residenziali autosufficienti, circondati da superstrade urbane, senza nessuna relazione spaziale con il contesto. Caratteristiche che hanno certamente contribuito alla invivibilità di questi luoghi e a un rifiuto generalizzato degli abitanti. E se l’architettura ha tentato di offrire soluzioni, anche di livello innovativo, è mancata proprio la dimensione urbana e urbanistica del problema , e l’errore che spesso è stato fatto, talvolta proprio dalla cultura architettonica, è stato quello di scambiare la qualità architettonica degli edifici con la qualità urbana e sociale dell’intervento, immaginando oltretutto che il carattere architettonico di uno spazio progettato, nulla avesse a che vedere con le condizioni di uso dello spazio stesso e con le cause del degrado diffuso che si sono determinate nel tempo.
Al via la riqualificazione urbana
E dopo tanti, troppi, anni di discussione tra chi riteneva che fosse
possibile, anzi doveroso recuperare le Vele per la loro indiscussa valenza
architettonica, proponendo in qualche caso il vincolo architettonico sugli
edifici, e chi riteneva che non vi fosse altra possibilità che
l’abbattimento, avendo verificato l’impossibilità di altri usi che non
fossero quello residenziale, con degrado architettonico e sociale che
avanzava velocemente e inesorabilmente, tra le proteste dei cittadini, gli
abbattimenti parziali (tre Vele abbattute tra il 1997 e il 2003), oggi che
le Vele rappresentano ormai nell’immaginario collettivo
il simbolo più forte del degrado e della delinquenza urbana
, arrivando al paradosso di rappresentare con Gomorra,
l’icona di un successo cinematografico di livello internazionale, sembra
che si procederà, proprio in questi giorni, all’avvio diRestart Scampia, un Programma di Riqualificazione delle Periferie Urbane
finanziato dal governo nell’ambito di un’azione complessiva che riguarda le
periferie di tutte le città metropolitane del paese.
Scampia e la Città Metropolitana
Il programma dovrebbe prevedere, per Scampia l’abbattimento di tre delle
quattro Vele oggi rimaste, con una conversione ad usi non solo residenziale
dell’unica Vela che rimarrà in piedi e la realizzazione di tutte quelle
attrezzature e funzioni necessarie a rigenerare Scampia. Naturalmente come
per Bagnoli, così anche per Scampia la visione strategica
dovrà essere quella metropolitana, e l’occasione di Restart Scampia
potrebbe offrire l’opportunità di lavorare alla definizione di scelte che
concorrano a costruire il Piano Strategico della Città Metropolitana. E’ ormai
evidente che il tema della rigenerazione a Scampia non può essere tema
semplicemente architettonico né sarà sufficiente elencare quali e quante
funzioni inserire. Quella delle Vele è stata evidentemente un’utopia
irrealizzabile, che tuttavia ci trasmette, anche guardando quello che si
sta realizzando in sostituzione, la necessità di un pensiero progettuale
condiviso di architettura e di città, interpretando il significato più
profondo di quanto dichiarava Le Corbusier a proposito dell’Unitè
d’Habitation, un’architettura che doveva prima di tutto essere una machine
à habiter, una macchina per vivere.