Ha ragione Carlo De Luca che i caratteri spaziali, sociali e politici della città contemporanea hanno da tempo fatto emergere «una sorta di più generale diritto alla città, che si manifesta su due questioni prevalenti: gli spazi e gli edifici occupati e autogestiti, e gli usi sociali, prevalentemente notturni, degli spazi pubblici». Un diritto che si è affermato come richiesta dal basso, come espressione della cultura antagonista (centri sociali e squat, l’occupazione a fini residenziali di edifici pubblici e/o abbandonati), e dall’alto, come strategia di governo pubblico del tempo libero (estati romane, notti bianche), e infine come richiesta diffusa dell’iniziativa economica privata (i fenomeni della movida).
Agito da aree sociali marginali, dalle istituzioni pubbliche, o dai privati, questo diritto alla città ricorre fondamentalmente a manufatti e spazi urbani che possono essere assommati nella categoria dei “beni comuni”. E proprio per questo è necessario che architettura e urbanistica prendano atto e concorrano a governare in modo laico un cambiamento che pare rispondere a istanze profonde della città contemporanea di riaggregazione sociale; riaggregazione che passa «attraverso la riappropriazione degli spazi urbani, ma anche attraverso espressioni immateriali come l’idea di spostamento e di incontro, e la partecipazione di grandi numeri di cittadini in una inedita percezione dei luoghi della città».
Invito del tutto recepibile, a patto però che si tenga ben presente la notissima definizione introdotta in economia nel 1968 da Garret James Hardin di tragedia dei beni comuni, o collettivi, per quella situazione in cui diversi individui utilizzano un bene comune per interessi propri e nella quale, non essendo chiaro i diritti di proprietà, non è garantito il fatto che chi trarrà i benefici dall'uso della risorsa ne sosterrà anche i costi (anche come obbligo a non produrli come diseconomia collettiva); né è monitorato l’accesso alla risorsa comune in modo che il suo sfruttamento, legato a interessi personali non regolamentati, porti ad un suo sfruttamento eccessivo tale da causare una situazione diversa dall’ottimo sociale, che ancora vorrebbe garantire il diritto alla città; e ne legittima, di questo diritto, la presa in carico da parte delle istituzioni, come nella filosofia del “benecomunismo” di cui Napoli è diventato un laboratorio politico-sociale.
Da questo punto di vista il tema è far convivere questi aspetti del diritto alla città con la sfera basica del diritto alla città, che è quella che si assomma nella categoria della sua ordinaria e ordinata vivibilità singola e collettiva; che è il primo bene comune che della città va tutelato; talmente primo che l’evasione da questa tutela ha aspetti non solo politicamente rilevanti, ma sanzionabili sotto vari profili di diritto, di cittadinanza e di legalità.
Quello che bisogna evitare è un sociologismo giustificatorio, che passi sopra alle gravi lesioni alla vivibilità della città che possono venire, e vengono, da un diritto alla città richiesto e praticato fuori dalle regole, e per quanto riguarda le amministrazioni pubbliche fuori dal puro e semplice buonsenso. Il che vuol dire che manifestazioni promosse dalle istituzioni non possono venire meno all’agibilità della città in tutti i suoi aspetti, dalla mobilità alla sua vivibilità. Così come i pur positivi aspetti d’integrazione spontanea dal basso di un welfare in crisi nella pratiche della cultura antagonista non possono recare pregiudizio al principio di legalità nelle sue varie espressioni. E infine, che è il problema forse più urgente, nella movida notturna, potranno anche ritrovarsi aspetti di una nuova socialità, un nomadismo notturno, in cui si configurino quelle che Marino Niola definisce cerimonie sociali, emersione di percorsi e mappe mentali che definiscono una nuova cartografia metropolitana; ma queste cerimonie sociali non possono capovolgersi in pratiche non d’integrazione sociale (come le cerimonie sociali sono sempre state), ma di disintegrazione sociale, di vissuti urbani resi insostenibili a chi ne ha primario diritto. Le traiettorie non cercano l’esperienza, ma lo sono, come afferma Alessandro Baricco, è una bella formula, ma per le ore libere di chi ce l’ha; che non possono dettare l’orologio della città. Perché altrimenti quest’orologio si ferma. E l’orologio di Napoli è ben prossimo a questo.
© Eugenio MazzarellaProfessore di filosofia teoretica