Il Covid19 e l'esperienza della quarantena hanno lasciato segni profondi nelle coscienze della popolazione, che si esprime sotto forma di una diffusa domanda di cambiamento nell'organizzazione della nostra società, di cui la città rappresenta il luogo dell'innovazione ma anche delle contraddizioni economiche e delle fragilità sociali che essa comporta. Non a caso l'epidemia ha eletto come habitat privilegiato le grandi conurbazioni del mondo occidentale, mettendone a nudo problematiche che già da tempo erano poste all'attenzione dell'opinione pubblica e dei decisori pubblici ma che nella realtà risultavano troppo spesso confinate nello sterile spazio del consenso politico ed elettorale. Basta qui ricordare che già da oltre un decennio la Commissione Europea ha compilato un elenco di 258 città "in declino" e segnalato la necessità di costruire un nuovo paradigma di regolazione che potesse misurarsi con le irreversibili trasformazioni economiche e sociali indotte dall'innovazione e dalla globalizzazione.
Un interessante segnale relativo ad una presa di coscienza di tale problematica arriva in questi giorni da Barcellona, dove si è costituito il "Manifiesto por la Reorganizaciò de la Ciiudad tras el Covid19" al quale hanno aderito già circa 1.500 tra accademici, esperti, amministratori delle grandi città del mondo, imprenditori e responsabili dello sviluppo locale. La filosofia di fondo nasce dall'esigenza di avviare la ricostruzione investendo sulla resilienza delle nostre società, non solo dal punto di vista finanziario ma nel senso più ampio che include la salute pubblica e la formazione, lo sviluppo economico e l'inclusione sociale. Tale iniziativa alimenta la convinzione che la costruzione di una città più resiliente deve assumere tre priorità assolute che riguardano rispettivamente: il riassetto istituzionale del territorio, la promozione economica, l'inclusione sociale, ovvero i tre elementi espressivi della complessità urbana.
Declinando tale paradigma nel delicato contesto napoletano il primo problema da affrontare resta la costruzione della città metropolitana, che viaggia con ritardi insopportabili rispetto alle esigenze di un territorio devastato nella sua configurazione fisica e privo di una visione strategica complessiva sul piano dello sviluppo economico. Superare il modello "centro-periferia" in direzione di un moderno policentrismo significa definire in maniera organica le "aree omogenee" e la scomposizione della città in "comuni urbani", il che rappresenta la pre-condizione per sollecitare investimenti privati e per avviare un complesso di opere infrastrutturali al servizio delle imprese e delle comunità locali. Altrettanto delicata appare la prospettiva dello sviluppo economico, poiché la grande crisi degli ultimi decenni ha determinato nuove morfologie insediative decretate dall'innovazione tecnologica e dalla nuova qualità del mercato del lavoro. Di fatto alla rottura del tradizionale modello economico-territoriale si è sostituita una nuova "geografia della centralità e della marginalità economica" in cui il nucleo centrale della città cede alla "città diffusa" la responsabilità delle produzioni materiali mentre tende a monopolizzare le attività di servizio ed immateriali. Da una parte, ritroviamo la "città dell'immaginario", ovvero il nucleo centrale che da luogo fisico tende ad assumere i connotati di uno spazio simbolico destinato ad iniziative del terziario immateriale per competere sui mercati globali, dall'altra, la "città della produzione", quella dell'impresa e del lavoro operaio. Due realtà che tendono ad ignorarsi ma che risultano invece strettamente complementari in un grande progetto metropolitano. Si tratta, dunque, di accelerare la definizione e l'approvazione del "Piano Strategico della Città Metropolitana" attraverso interventi infrastrutturali "di rete" e "di contesto", sul piano dell'integrazione materiale ed immateriale dei singoli territori "omogenei". Per fortuna non si parte da zero, basta fare l'inventario delle tante ricerche prodotte dagli Atenei napoletani e dalle associazioni imprenditoriali che offrono precise indicazioni, da una parte sulla grande questione della rigenerazione urbana della "città dell'immaginario" e dall'altra sugli interventi necessari per rendere "accoglienti" le diverse realtà manifatturiere della "città della produzione”, dove il costo complessivo degli investimenti privati accusa un gap di circa il 20% in più rispetto alle aree del Centro-nord. Il tutto in un quadro dove la politica "del rammendo" (a dirla con Renzo Piano) faccia da collante tra le due "città" dell'area metropolitana.
Infine il "diritto alla città", secondo la fortunata definizione che già nel 1969 in estrema sintesi rivendicava Henri Lefebvre a proposito del rapporto tra cittadini e spazio urbano, partendo da un deciso contrasto alla ineguaglianza educativa che è alla base della fragilità sociale e della scarsa competitività dell'area metropolitana e che troppo spesso si concretizza ancora in una visione localistica dei rapporti interpersonali, fino al limite del potere di "clan dell'illegalità" che dettano regole di convivenza civile in aperta contraddizione con una la società urbana che guarda al futuro. Anche su questo piano bisogna puntare ad un organico piano di investimenti pubblici orientato in maniera prioritaria al ridisegno degli spazi urbani e di quelli privati. Ragionando sull'epifania delle contraddizioni evidenziate dal coronavirus, è forse il momento giusto per interrogarsi seriamente sul significato ed il ruolo dei "beni comuni", come accumulatori di valori etici e produttori di valori economici, nell'ottica di una ritrovata sostenibilità antropica ed ambientale.
Più in generale il "lockdown" ha rappresentato una irripetibile occasione per riflettere sul "declino" in cui appare ormai da tempo incapsulato il destino di Napoli e per riscrivere la sua identità senza inseguire il mito di una falsa modernità non sostenibile. Città del turismo, dell'industria innovativa, della cultura e della ricerca? Tutte ipotesi legittime ma che vanno inserite in un processo di metropolitanizzazione della città e delle sue funzioni. Il che chiama in causa in maniera prioritaria la conoscenza che non può che formarsi nell'agorà, ovvero in quello spazio né privato né pubblico ma nello stesso tempo pubblico e privato in cui i problemi di specifici settori si connettono per definire una "visione" condivisa di un futuro possibile. In questa logica il "forum metropolitano" attivato in applicazione dell'art. 6 dello Statuto della Città Metropolitana sta lavorando già da tempo con tutte le forme associative che ha coinvolto alla definizione del "Primo Piano Strategico". Forse è il caso di inserire in questo processo di consultazione alcune variabili espressioni di un futuro urbano che entrerà di fatto nell'era della zoonosi.
© Gennaro BiondiProfessore straordinario di Economia delle aziende turistiche e Coordinatore di OMeN - Osservatorio Metropolitano di Napoli