I primi dati sull’andamento del settore turistico relativi alla Città Metropolitana di Napoli nei mesi di luglio ed agosto danno conto di una lieve flessione che già si era manifestata nel 2022 dopo l’exploit post-Covid. All’euforia mediatica di tanti osservatori vale forse la penna di ricordare che la giungla di B.&B. è sotto gli occhi di tutti e propone un’accoglienza fatta per molta parte di irregolarità ed abusivismo che non incide in maniera sostanziale sullo sviluppo dell’intera comunità cittadina che, piuttosto, soffre una modesta disponibilità di alloggi per giovani “fuori sede” e per le nuove famiglie. A dirla con Silvio Orlando (intervista a “la Repubblica” di domenica 15 settembre) siamo di fronte ad un fenomeno che a Napoli “distrugge la bellezza e cambia l’anima della città”.
Dalla passione del grande attore alla razionalità dei numeri il passaggio è obbligatorio: all’incremento del dato quantitativo corrisponde un peggioramento dell’offerta, il che contrasta una sana concorrenza basata sulla qualità della ricettività e dei servizi. Questa materia è all’attenzione delle istituzioni e del mondo imprenditoriale (ultimo esempio la polemica relativa al recupero della tradizionale destinazione turistica dell’Hotel de Londres).
Forse è utile segnalare che una città metropolitana della dimensione e complessità quale è Napoli non può costruire il suo futuro su un’unica funzione, sia pure strategica, come il settore turistico attuale. Tutte le grandi concentrazioni urbane europee presentano una struttura economica articolata in diversi settori che concorrono alla produzione della ricchezza locale. Non a caso all’euforia estiva per i dati relativi al turismo si sostituisce invece uno strisciante pessimismo autunnale quando si prende coscienza del forte squilibrio tra la quota di P.I.L. prodotto dai servizi e dal totale degli altri settori (i dati del P.I.L. urbano nel Focus di Gabriella Reale).
In dettaglio, i comparti dell’artigianato, del manifatturiero e del commercio sono caratterizzati ciascuno da specifiche problematiche sul piano dell’organizzazione e della distribuzione territoriale. Innanzitutto la crisi dell’artigianato storico risulta effetto di una progressiva terziarizzazione, nel senso che alla bottega tradizionale in cui si respirava l’aria della creatività del titolare si va sostituendo un esercizio commerciale in cui gli eredi delle antiche attività offrono gli stessi articoli ma prodotti da aziende nazionali ed anche da multinazionali (es. il Pulcinella importato dalla Cina); da parte sua molti settori del commercio “di vicinato” ( dall’alimentare a quello dell’abbigliamento) presentano un alto tasso di mortalità aziendale dovuto all’affermazione di una “corona metropolitana” di grandi centri commerciali che rispondono ad un cambiamento di gusti e di abitudini dei compratori e spesso sono considerati semplici luoghi di “comfort ambientale” e svago per le famiglie. Resistono a fatica solo esercizi dall’alto valore aggiunto inseriti in circuiti societari nazionali o internazionali localizzati nel “salotto bene” della città.
Una riflessione particolarmente attenta merita il settore della manifattura il quale, dopo l’esaurirsi del processo di deindustrializzazione della città, risulta in sostanza distribuito nell’intera regione in 6 distretti fondamentali (da quello orafo di Marcianise, al conciario di Solofra, al tessile di Casapulla, di San Marco dei Cavoti e di San Giuseppe Vesuviano, al calzaturiero di Grumo Nevano). Certo in questi agglomerati operano anche aziende posizionate sulle nuove frontiere dell’innovazione ma resta il dato che indica nel 20% circa il differenziale nei costi di investimento nel Napoletano rispetto alle aree del Centro–Nord. Alla definizione di questo “grande gap” concorrono le ben note diseconomie ambientali ed economiche. Le conseguenze si leggono nel persistere di una forte emigrazione dei giovani diplomati e laureati, nell’invecchiamento dei quadri aziendali, nella pigrizia nell’adozione delle innovazioni, nel persistere di un nanismo aziendale (il 92% delle aziende conta meno di 10 addetti e solo poche unità fatturano più di 500mila euro). Tutti ostacoli per la competitività dell’intero sistema produttivo che segnalano il perdurare di un circolo vizioso che si alimenta dei ritardi delle istituzioni nella predisposizione delle infrastrutture e di una modesta propensione dell’imprenditoria al rischio d’impresa).
Se il turismo rappresenterà anche in futuro una risorsa per l’economia urbana, purché si riesca a governare in maniera sistemica il suo attuale spontaneismo, resta il fatto che per lo sviluppo metropolitano è urgente la definizione di una “visione condivisa” da tutti gli attori in campo prima che sia troppo tardi rispetto ad una geo-economia globale in continua e rapida trasformazione.
Ancora una volta Napoli si ripropone come una “città “ambigua”, in bilico tra un protervo immobilismo ed una insensata esplosione di mutamenti legati ad una disperata voglia di sopravvivenza.
© Gennaro BiondiProfessore straordinario di Economia delle aziende turistiche e Coordinatore di OMeN - Osservatorio Metropolitano di Napoli