Oltre i sogni di gloria, si staglia impietoso il realismo. «Non si può pensare di recuperare tutto: bisogna darsi una strategia e fare delle scelte». Giovanni Laino, professore di Tecnica e Pianificazione urbanistica alla Federico II e autore di diversi saggi, sgombra subito il campo dalle illusioni. Dei tanti contenitori dismessi che punteggiano Napoli, la Campania e l'Italia intera, alcuni sono da salvare e da riconvertire, altri da alienare, altri da "buttare".
Professor Laino, girando per le nostre città si incontrano un po' ovunque enormi fantasmi di cemento. Giganti caduti in disarmo che hanno perso destinazione e identità. Così grandi eppure così invisibili, quei palazzi rischiano di marcire sotto l'oltraggio del tempo che passa.
«Iniziai ad occuparmi di edifici dismessi con il nuovo corso di laurea in Urbanistica, nei primissimi anni 2000. Parliamo di complessi anche molto imponenti che non svolgono più la funzione per la quale furono costruiti. A Napoli il più grande è l'ex Albergo dei Poveri, ma ce ne sono decine in tutta Italia. In particolare, mi sono soffermato sull'ex Ospedale Militare, attuale Parco dei Quartieri Spagnoli, e partendo da quel caso ho elaborato delle tesi».
Ce le illustri.
«Napoli e l'Italia intera sono pieni di quelli che chiamo "gli ex qualcosa": ex opifici, ex macelli, ex conventi, ex ospedali, ex caserme, ex fabbriche di cui non sappiamo cosa fare. Tutto questo patrimonio dismesso è il frutto della trasformazione epocale che stiamo attraversando. Sono cambiati i fondamentali dell'economia urbana, sono cambiate le modalità di produzione dei beni e dei servizi ed è cambiato il modo in cui si distribuisce la ricchezza. Gli ultimi anni del '900 sembravano meno turbolenti, abbiamo assistito ad una crescita e si nutrivano grandi speranze, anche perchè il modo di produrre beni e servizi era quello che si conosceva. Si trattava solo di crescere e innovare sulla base di ciò che già c'era. In quest'ottica, è stato facile adattare il patrimonio immobiliare disponibile alle nuove esigenze. Ma poi le cose sono cambiate rapidamente».
Quegli edifici, tuttavia, sono parte di un patrimonio materiale e identitario radicato nei ricordi della gente e, in qualche modo, del genius loci.
«Vero, ma quando è cambiato radicalmente il modo di produrre i beni ci si è accorti che serviva molto meno spazio sia per l'approvvigionamento che per lo stoccaggio delle merci. Tutto è diventato più piccolo e più veloce, così abbiamo avuto dei problemi. L'organizzazione dello spazio è andata in crisi. Per dirla con una metafora informatica, il software è cambiato velocemente, ma l'hardware no. Oltretutto, sono cambiate la sensibilità e l'attenzione rispetto a temi come la sicurezza e l'igiene. E di conseguenza sono cambiate le normative, che oggi sono molto più impegnative di una volta. Di fronte a questi vincoli, noi, che abbiamo edifici per lo più vetusti, andiamo in difficoltà.
In altre parti del mondo, come sono stati affrontati questi problemi?
«A Parigi, per esempio, si trovano edifici storici in parte modernizzati e senza barriere architettoniche, ma ci sono anche porzioni e piani non raggiungibili dai disabili. Noi in questo siamo un po' estremi. In luoghi dove si costruisce tutto da zero, come in Danimarca, leggi così stringenti vanno bene. Ma qui abbiamo tanti edifici antichi, non ha senso complicarsi la vita. Del resto, ci sono servizi igienici per disabili dove i disabili non entrano mai».
Come si restituisce senso e dignità a questo grande patrimonio abbandonato?
«Questo problema si risolve solo aprendo pian piano dei cantieri e immaginando nuove modalità di produzione di beni e servizi e di distribuzione e organizzazione della ricchezza. Servono idee: fin quando non inventiamo qualcosa di veramente innovativo sulla rigenerazione urbana, faremo esercizi di visioning più o meno interessanti, ma non risolveremo niente. Ci vuole un programma straordinario fondato sui dati dell'Agenzia del Demanio sulla cui base stabilire le priorità e le logiche. Una parte di quei contenitori dismessi possono essere convertiti in civili abitazioni per rispondere alla domanda di abitare. Il Leonardo Bianchi, per esempio, potrebbe essere in parte destinato al co-housing. In ogni caso, però, se ogni tre chilometri quadrati c'è un "ex qualcosa" da rigenerare non si può pensare di recuperare tutto. Anzi: qualche economista sostiene che quei complessi non valgono niente. A questo proposito, bisogna anche osservare il contesto: nei locali delle Manifatture dei Tabacchi, a Napoli, nella zona di Gianturco, è stato realizzato uno studentato con un intervento molto oneroso. E intorno c'è un deserto degradato».
Intanto, si sono registrate diverse iniziative "dal basso".
«Sì, in Italia si è iniziato a fare qualcosa a basso costo, sulla base di spinte spontanee partite dai cittadini. È il caso dei "Cento segnali di futuro", un catalogo di usi provvisori e volontari. A Napoli abbiamo l'ex Asilo Filangieri, l'ex Opg e altre esperienze. Qui sono realizzate un po' alla carlona, al Nord in modo più qualificato. Ma servirebbe una visione strategica».
Il tema, dunque, non è solo economico, ma anzitutto culturale.
«Senza dubbio, è un tema profondamente culturale. Non possiamo vivere ancorati nel '900 e pensare di conservare tutto. Dobbiamo proiettarci nel nuovo millennio, ponendoci alcune domande: come possiamo condizionare il capitalismo estrattivo senza esserne soltanto usati? Come possiamo cercare di governare dei processi in modo non ideologico e velleitario? Ormai l'economia circolare, il co-working sono i nuovi miti. Ma, al di là delle mode, bisogna essere molto pragmatici. Siamo di fronte ad una sfida epocale».
Lei un'idea su come vincerla ce l'ha?
«Di recente ho letto un libro di Marco D'Eramo su Chicago ("Il maiale e il grattacielo: Chicago, una storia del nostro futuro", Feltrinelli, ndr) che mi ha insegnato un sacco di cose. Le grandi trasformazioni, lo sappiamo, lasciano un sacco di cadaveri, ma offrono anche molte opportunità. Noi abbiamo questa sfida davanti. Come facciamo a rigenerare luoghi e l'economia partendo da quello che c'è? Prima di tutto, dobbiamo stabilire che forse servono delle istituzioni che governino i processi. E poi bisogna riorganizzare il patto sociale del Paese, rispondendo ad alcuni interrogativi: Quanta ineguaglianza possiamo tollerare? Quanta illegalità possiamo tollerare? Quanta informalità possiamo tollerare? Perché qui ognuno fa quello che vuole, a cominciare dall'evasione fiscale. Da queste domande vengono fuori dei quadri-matrice sui quali possiamo orientarci».
Per chiudere, uno zoom sul centro storico di Napoli: sotto i pezzi della città che si sbriciola c'è chi ci ha rimesso la vita. C'è un modo per uscire dall'emergenza perenne?
«Per prima cosa, è necessario dar vita ad un Progetto Sirena rinnovato e più avanzato. Poi, bisogna obbligare i privati a fare gli interventi di manutenzione. In Italia la proprietà immobiliare è trattata coi guanti bianchi, in certi casi i proprietari delle abitazioni vanno messi alle strette».
© Davide Cerbone