La sarta del popolo e quella Napoli che non c'è più

Carmela, 86 anni, ha speso la vita a rammendare abiti e a crescere i suoi figli in un basso di Materdei: «Ho cucito le camicie anche a Lauro, ma qui paga solo chi può»

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Da ottantasei anni il suo mondo inizia e finisce in questo reticolo di viuzze che sembrano scavate tra i palazzi stretti l'uno all'altro. Un piccolo mondo antico e verticale nascosto alla vista dei più, che da Materdei scende fino alla Stella.

Carmela la trovi ricurva sul suo banchetto da sarta nella penombra del bugigattolo dove ha stabilito il suo laboratorio, in vico Noce a Fonseca, uno degli affluenti che da Santa Teresa si tuffano nell'intrico di vicoli ombrosi che crea mondi sommersi tra il Museo e via Foria. A pochi passi da qui, al secondo piano di un palazzo decadente immerso nel caos di via Santa Teresa, langue dimenticata la casa in cui Giacomo Leopardi trascorse gli ultimi giorni.

La Napoli che non c'è più, quella in cui miseria e nobiltà non sono concetti contrapposti, la ritrovi in questo budello immortalato più volte dal cinema: da Vittorio De Sica («Il giudizio universale», nel 1961) fino ad Alessandro Siani («Il principe abusivo», 2013), passando per «Napoli spara» e «Giallo napoletano». Certo, devi cercarla. Ma c'è. Fai qualche passo, domandi della signora Carmela (di cognome fa Campese, ma l'anagrafe del vicolo si ferma prima), un signore ti indica una finestra in alluminio con le ante spalancate. «Sono qua», si annuncia lei con voce squillante dallo stanzino due metri per due. Le passi il pantalone, lei fa combaciare i lembi strappati, li rimette insieme e te lo riconsegna. «Ecco qua». «Quant'è? Niente, non mi dovete niente. Vi pare che per pochi euro faccio una brutta figura? Non ne vale la pena», ti disarma. Così scopri che gli stenti non l'hanno indurita. E che ci sono posti nel mondo in cui la dignità vale ancora più dei soldi.

Nell'epoca in cui la pandemia ha finito di separare ciò che i social avevano già sfilacciato, Carmela ti regala una boccata di umanità che fa rifiatare la speranza. «Ragiono con la mentalità di una volta: da me viene tutto il vicolo, e paga chi può pagare». Ma la sua notorietà va ben oltre il vicolo. «È vero, non so come, ma mi conoscono anche in altri quartieri. Forse perché ho faticato per tutti: delinquenti e persone per bene, ricchi e poveri. Ho cucito le camicie anche al sindaco Achille Lauro e adesso aggiusto le divise dei carabinieri della stazione Stella: l'altro giorno, per ringraziarmi, il capitano mi ha portato una bella pianta. Qua non giudichiamo nessuno, non siamo all'altezza. E poi, come si dice: se giudichi, sarai giudicato», spiega, mentre guida la macchina per cucire con la stessa destrezza con la quale un pianista navigato esegue un minuetto. La crisi, però, ha bussato anche alla sua bottega: «Adesso che i vestiti costano poco, la gente piuttosto che ripararli preferisce comprarli nuovi», si rammarica la signora Campese, aspettando quella fatica che prima non le era mai mancata.

In questo angolo di città, dal lontano 1965, la camiciaia di Materdei ha stabilito il Nord e il Sud, l'Est e l'Ovest della sua esistenza. La dimora e il lavoro. «Non sono mai uscita da questi vicoli. Anzi, una volta sola, quando sono andata a Lourdes con mio marito perché mio figlio aveva ricevuto una grazia. Per il resto, da quando avevo 9 anni ho solo lavorato: ero la prima di dieci figli, ai miei genitori servivano i soldi. La mattina andavo a scuola e, subito dopo mangiato, andavo a imparare il mestiere. Abitavamo giù alla Stella. Poi, quando mi sono sposata, a 28 anni, sono venuta ad abitare qua».

Finito il lavoro, la sarta del popolo torna a casa. Cioè, nel basso di fronte. O meglio, fuori, a presidiare il vicolo con le amiche di sempre. Gli ultimi 55 anni li ha vissuti in 25 metri quadri: dalla strada, è un attimo e ti ritrovi nella stanza che è insieme ingresso, salotto e stanza da letto, dove un massiccio lampadario di vetro incombe sulle lenzuola fresche di bucato. Un altro passo, e sei nella cucina che dà sul bagno. Il cielo - anzi, tutto l'universo - in una stanza.

In questo monolocale fronte strada Carmela ha cresciuto i suoi due figli. Ma questo piccolo miracolo di resistenza lo racconta con una soddisfazione che non si concede sbavature. «Quando si sono fatti più grandi, abbiamo affittato la stanza lì di fronte, dove adesso lavoro, e abbiamo messo un letto a castello. Ho pensato sempre e solo a loro, non mi è mai interessato di niente: divertimenti, villeggiatura. Mio marito faceva il marmista, siamo operai: oggi si lavora, domani non si sa. Per anni ho ricamato scialle e vestiti fino alle due di notte», ricorda, riavvolgendo il nastro di una prigionia consapevole e volontaria, e tutto sommato felice. «I miei figli fanno e scarpari, non gli abbiamo fatto mai mancare niente. Ci dobbiamo rassegnare: chesta è a zuppa e chest' c'amma magna', dicono. Ma sono orgogliosi di noi».

Al tempo della privacy come ossessione e illusione, il vicolo osserva una dottrina fuori dal tempo: tutti ti guardano e tu guardi tutti. Anche se non vuoi. Ma Carmela e la sua amica Dora non hanno dubbi: «Qua si sta bene, il vicolo è bello», assicurano. Tra le pieghe di quei pantaloni e di quelle camicie, però, c'è una Napoli che va sbiadendo. E si va colorando d'Africa e d'India, in un meticciato che gli indigeni guardano con un misto di sospetto e benevolenza. «Ci sono parecchi extracomunitari, ma si fanno i fatti loro. Loro sono bravi con noi e noi rispondiamo al loro saluto con amore». Ci sono strappi, però, che neanche la più esperta delle mani può ricucire: «Il vicolo è cambiato, prima eravamo una famiglia, adesso la gente è falsa, ti parla alle spalle, non ti puoi fidare», confessa con un'amarezza che le risale fino agli occhi. Per questo, anche se dopo una vita di fatica non ha bisogno degli occhiali, Carmela risponde che no, un'erede non riesce a intravederla. «Con ogni nuova generazione finisce un mondo e ne comincia un altro: oggi, i giovani hanno una testa diversa dalla nostra». Il suo mondo, intanto, resiste in questo anfratto tra Materdei e la Stella. Tra un basso e l'altro, tra casa e puteca.