La ricercatrice: «Trovare un equilibrio tra tutela e fruizione»

Klarissa Pica ha scritto una tesi sul mare negato a Napoli: «In Campania il 70 per cento della costa è occupata da stabilimenti balneari, in Veneto il 39. Numero chiuso sulle spiagge? Misura escludente»

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C'è fame di mare. O meglio, sete. Una sete che l'acqua che s'infrange sui 480 chilometri di costa della Campania non riesce ad estinguere. Un fatto nuovo, però c'è: nella dialettica tra gli opposti interessi ha fatto irruzione un paio di mesi fa la sentenza del Consiglio di Stato, che, confermando una sentenza del Tar, ha ribadito la scadenza delle concessioni demaniali per le italiche spiagge al 31 dicembre dello scorso anno, sconfessando eventuali deroghe al prossimo 31 dicembre e richiamandosi «ai principi della Corte di Giustizia Ue» con l'invito a dare «immediatamente corso alla procedura di gara per assegnare la concessione in un contesto realmente concorrenziale». Un verdetto che a Napoli ha riaperto, ad esempio, l'accesso dal Bagno Elena alla spiaggia libera sotto Palazzo Donn'Anna, segnando un punto dal forte valore simbolico a favore del Comitato Mare Libero e Gratuito. Una svolta, certo, ma a metà: anche quest'anno, infatti, chi aspira ad un lembo di sabbia «libero e gratuito» a Posillipo deve prenotarlo il giorno prima. I posti disponibili sul sito www.spiaggelibere.it sono in tutto 500 (50 sulla spiaggia di Donn'Anna e 450 alla spiaggia delle Monache), ogni utente può effettuare un massimo di tre prenotazioni a settimana e l'accesso di minori è consentito solo se questi sono accompagnati da un adulto. Regole che gli attivisti contestano.

La battaglia vede in prima linea la napoletana Klarissa Pica, trent'anni, che dopo aver completato il primo ciclo di studi in Architettura a Napoli si è laureata a Venezia con una tesi magistrale dal titolo "La città dal mare negato: Verso una riqualificazione climate proof del waterfront di Napoli", premiata nel 2019 dall'associazione ambientalista Eugenio Rossman e selezionata per il premio "miglior tesi di laurea" dall'Università IUAV di Venezia nell'area tematica "pianificazione".

Lei è napoletana, ma si è laureata in Architettura a Venezia con una tesi magistrale sul mare negato all'ombra del Vesuvio e continua a fare ricerca su questi temi. La sua è un'immersione che dura da anni.

«Sì, mi sono laureata con una triennale a Napoli e poi con una magistrale a Venezia, dove ora sto completando un percorso di dottorato in Urbanistica che porterò a termine questo autunno nel quale cerco di approfondire il tema di ricerca, affrontando le tematiche della tesi: il waterfront, l'accesso al mare e i cambiamenti climatici. Temi che emotivamente mi hanno particolarmente toccato, tanto da farmi decidere di intraprendere un percorso di dottorato che dura diversi anni, con la tesi "Territorio mare", che vede la costa come un territorio profondo, che penetra nell'entroterra. Uno spazio pubblico da riconquistare, come va riconquistato il diritto al mare».

Poi, appunto, si è iscritta al Comitato Mare Libero e Gratuito, che si batte per affermare queste istanze.

«Sì, e da pochi giorni sono referente regionale per la Campania del coordinamento Conamal. Volevo che l'opportunità di fruire del mare venisse garantita a tutti. È assurdo vivere in una città di mare dove il mare però non lo puoi toccare. Questa impossibilità mi faceva rabbia. La costa da un lato è un ambiente fragile, sempre più esposto ai cambiamenti climatici, e dall'altro è un bene pubblico di alta rilevanza collettiva. Per questo ho voluto indagare il tema delle concessioni balneari e ho studiato la direttiva Bolkestein. Tra l'altro, i canoni richiesti per le concessioni sono spesso irrisori, mentre per un ombrellone ti chiedono cifre esorbitanti. Almeno, bisognerebbe capire se si possano utilizzare quei soldi per il ripascimento costiero e per la tutela dell'ambiente».

Ha scelto di puntare la sua lente di ingrandimento su Napoli solo perché è la sua città?

«No, non solo per questo. All'inizio mi sono concentrata su emi dei cambiamenti climatici e sulle fragilità delle coste con i quali noi tutti siamo chiamati a confrontarci. Le coste sono gli hotspot del cambiamento climatico, sono i luoghi dove questi sono più evidenti. Ma Napoli è una città emblematica sul piano del mare negato, poiché presenta impedimenti antropici e morfologici legati a difficoltà fisiche di raggiungere il mare e luoghi abbandonati ai suoi estremi come Bagnoli, con i noti problemi legati alle bonifiche, e San Giovanni a Teduccio, dove insistono la linea ferroviaria e un'area portuale sempre più autoreferenziale che non comunica con la città. Intanto, c'è una costellazione di concessioni balneari a privati sproporzionata rispetto all'effettiva disponibilità di spiagge libere che nega l'accesso alle persone».

Emerge un tema di discriminazione sociale?

«Certo, è un tema di ingiustizia sociale. Bisogna riconquistare il diritto al mare soprattutto in una città come Napoli, dove non tutti hanno la possibilità di pagare le quote molto ingenti che vengono richieste per entrare nei lidi, soprattutto se si tratta di famiglie. L'accesso alla spiaggia e al mare è un bene pubblico, e in quanto tale dovrebbe essere garantito a tutti. Invece il regime delle concessioni, che ha considerato le spiagge come meri dispositivi estrattivi di valore, ha progressivamente sottratto il litorale ad un equo godimento da parte dei cittadini, accentuando alcune disuguaglianze. Se da un lato si rende esplicita la necessità di tutelare il mare, dall'altro emerge la necessità di tutelare l'interesse generale sia in termini di sostenibilità ambientale che sociale. In questo senso, soprattutto in un contesto così complesso come quello napoletano, emerge la necessità di "ridare dignità" a questi beni, garantendo che una congrua percentuale rimanga estranea alle logiche del mercato e sia fruibile gratuitamente dai cittadini, sperimentando, nel rispetto dell'ambiente naturale, possibili nuove forme di gestione collettiva e condivisa. Il tema del diritto di accesso al mare è un tema di giustizia sociale e ambientale. Serve una nuova stagione di politiche e progetti di ri-democratizzazione delle coste, a partire da pratiche di riappropriazione sociale, in particolare in ambito metropolitano, anche in un'ottica di riduzione dei divari socio-spaziali. Con il Comitato abbiamo fatto una mappatura della situazione ad oggi sulle aree accessibili e inaccessibili, su quelle inquinate e quelle che non lo sono. Bene, è venuto fuori che solo il 4 per cento è fruibile. È una questione paradossale che ci riguarda tutti, considerando che il litorale è un bene pubblico».

Come concilia la ricerca con l'attivismo? Le istanze civili e politiche non rischiano in qualche modo di contaminare e di orientare la ricerca?

«Bisogna tenere ben fermo il proprio posizionamento, ma è inevitabile che la ricerca venga contaminata e ampliata. Mi sono avvicinata al comitato proprio a partire dalla ricerca. Averlo intercettato è stata una fortuna, ma se ti appassioni a certi temi e vai oltre la mera attività universitaria diventa difficile definire il confine tra il coinvolgimento civile ed emotivo e il distacco accademico. Il fatto di aver sperimentato un'esperienza diretta, però, mi ha dato la possibilità non solo di entrare in contatto con persone con le quali condivido valori ed obiettivi, ma anche di conoscere tanto, intercettando in modo molto più profondo alcune dinamiche. L'interazione con tanti attori e in particolare con gli attivisti mi ha consentito di sperimentare livelli di conoscenza diversi: quella esperta dell'università e quella giuridico- amministrativa utile per la rivendicazione del diritto alla fruizione del mare in modo giusto e eguale. Sono occasioni di formazione molto utili. La forza del Comitato Mare Libero e Gratuito di Napoli e la riuscita delle nostre mobilitazioni, che hanno un effetto di riverbero al livello nazionale, si fonda sul fatto di poter contare su una rete di attori molto radicata sul territorio che si occupa dei beni comuni ad uso civico della città e hanno segnato una strada sui temi Commons, producendo su quei temi un sapere condiviso».

Massimo Clemente, direttore dell'Istituto di Ricerca su Innovazione e Servizi per lo Sviluppo del Cnr, ha detto a Nagorà che il mare libero per tutti è un'utopia.

«Il mare è un bene che apparterrebbe alla collettività, ma per via delle concessioni in regime di monopolio è diventato sempre più escludente. Si è parlato tanto della scarsità della risorsa spiaggia, ma lo è per definizione spiaggi. È vero che l'Italia ha tanti chilometri di costa sabbiosa, ma il 43 per cento, quasi la metà, è occupato da concessioni balneari. A questa quota bisogna aggiungere tutti quei tratti interdetti alla balneazione per ragioni di inquinamento quelli alle foci dei fiumi e quindi non effettivamente fruibili. Alla fine questa percentuale di costa non accessibile aumenta enormemente. Detto questo, la tutela del mare è prioritaria per contrastare il suo depauperamento e preservare gli ecosistemi marini per le generazioni future. Bene pubblico per eccellenza, ecosistema vulnerabile e scarso, la costa è uno spessore fragile, esposto alle manifestazioni più radicali del cambiamento climatico e sottoposto a innumerevoli perturbazioni e pressioni antropiche, che ne hanno compromesso l'equilibrio in modo irrimediabile. L'intensiva occupazione delle spiagge con attrezzature e strutture spesso precarie ha alterato l'equilibrio terra-mare e trasformato le caratteristiche morfologiche del patrimonio costiero. Bisognerebbe ragionare a partire da queste premesse».

Al netto dell'impegno civile e della ricerca, qual è il suo rapporto col mare?

«Sono prima di tutto un'amante del mare. Ho fatto vela sin da ragazzina, e quando ero al liceo, passavo l'estate alla Gaiola e a Marechiaro. Appena finiva la scuola, si andava alla spiaggia libera con gli amici. A questo proposito, ho notato che in altri posti è facile andare al mare. Nella mia città, invece, ho sempre fatto fatica. Abitavo al Corso Vittorio Emanuele, prendevo lezioni di vela, e per fortuna potevo andarci in motorino: prendere il 140 per arrivare a Capo Posillipo era un'avventura».

Lei vive tra Napoli e Venezia, due città di mare molto diverse tra loro: quali sono le differenze?

«Venezia ha molta più costa disponibile, molta più spiaggia. Ci sono concessioni, chiaro, ma le porzioni di spiaggia libera sono più ampie. Se poi andiamo verso Jesolo o San Michele al Tagliamento, gli spazi pubblici aumentano. Napoli è molto antropizzata, c'è molto costruito, con tante aree occupate da concessioni balneari oppure da porti e zone da bonificare, per cui alla fine resta poco. Dai dati di Legambiente, In Campania circa il 70 per cento di costa sabbiosa è occupata da stabilimenti balneari, in Veneto questa quota si attesta al 39 per cento. Una differenza notevole. È normale che qui il problema sia particolarmente sentito: le uniche spiagge che non sono occupate da lidi privati sono sottoposte al regime del numero chiuso, e il bacino di utenza della città metropolitana di Napoli è molto ampio».

A proposito, che cosa pensa della decisione di introdurre il numero chiuso con l'obbligo di prenotazione per accedere alle spiagge di Napoli?

«Se da un lato si mettono in gioco questioni che potrebbero essere condivisibili rispetto alla necessità di preservare la risorsa costiera e di garantire l'ordine pubblico, dall'altra mi viene da dire che se ci fossero tante porzioni di spiaggia libera potrebbe essere giusto contingentare gli ingressi. Dal momento che lungo il litorale di Posillipo quelle porzioni sono ridicole, se anche per quelle accessibili gratuitamente si introduce il numero chiuso, l'effetto è particolarmente escludente, ancor più se si tengono fuori i minorenni non accompagnati da un adulto. Insomma, se la costa è davvero un bene pubblico appartenente alla collettività, c'è qualcosa che non torna».

Sono annose le polemiche anche sulle aree marine protette come la Gaiola. In quel caso vede compresso il diritto dei cittadini ad utilizzarle un'area pubblica?

«È una questione ampia su cui è difficile esprimersi in modo netto. Se da un lato il Csi Gaiola, che l'ha gestita in questi anni, ha certamente portato una serie di benefici all'area che vanno riconosciuti, dall'altro rilevo delle ambiguità: la Gaiola è vicina ad un sito Sin, quello di Coroglio-Bagnoli, dove ci sono degli scarichi reflui, alcuni usi sono impediti ma la onlus che la gestisce può organizzare i tour con le barche. C'è un problema molto delicato di interessi ed usi, che mette in contrapposizione la necessità di preservare il luogo e quella di garantire l'uso pubblico. Qual è il limite della tutela e della conservazione, quando questa incide sui diritti di accesso al mare? Quanto questo diritto lede le caratteristiche naturali di un luogo? Il primo nodo sul quale bisogna far chiarezza, però, è come sia possibile che quell'area marina protetta sia stata assegnata ad una onlus del terzo settore che l'ha gestita come se fosse un luogo privato senza una gara pubblica e trasparente».

Sul mare libero, sull'accesso garantito a tutti, l'Italia fa storia a sé? Resistono vecchie incrostazioni, abusi e privilegi?

«Facendo uno studio rispetto agli altri Paesi che affacciano sul Mediterraneo, l'Italia ha una situazione paradossale in termini di occupazione della costa, per cui il concetto di mare libero è ancora molto ostacolato dal regime di monopolio che si è generato Intorno alle concessioni. C'è poi il mancato adeguamento alla direttiva Bolkestein, che non deve essere vista come la panacea, ma colloca comunque l'Italia indietro rispetto ad altre nazioni. In Francia l'80 delle spiagge deve essere libero, in Spagna lungo la costa non possono esserci strutture fisse. La concezione di bene pubblico demaniale è ancora il problema. Ecco perché esperienze come quella del Comitato Mare Libero e Gratuito e il Conamal al livello nazionale diventano fondamentali, soprattutto perché molto spesso la gente è poco informata, quindi è necessario informare e sensibilizzare. Ad esempio, molti non sanno che le concessioni sono scadute e quindi i lidi italiani oggi sono tutti abusivi. La gente non sa che vige una servitù di passaggio, che la battigia deve essere sempre libera e deve essere garantito l'accesso ad essa, che possono portare il cibo da casa e nessuno può ispezionare la borsa o lo zaino e obbligarti a consumare il cibo venduto dallo stabilimento. Ci sono casi in cui si è invertito il rapporto regola-eccezione, per cui abbiamo accettato una serie di dinamiche da cui facciamo fatica ad uscire. Cose alle quali ci siamo abituati, pensando che funzioni così. Anche per questo organizziamo azioni dimostrative sulle spiagge. È una modalità di protesta, ma vogliamo far conoscere alla gente come dovrebbe funzionare. Credo che negli ultimi anni ci sia stato un aumento della consapevolezza collettiva rispetto ai diritti che si hanno davanti al mare. Oltre alle nostre iniziative, anche i social stanno aiutando a diffondere questa conoscenza. Ci scrivono, ci fanno domande, c'è uno scambio di informazioni. È chiaro, però, che c'è ancora tanto da fare».

Oltre al tema dell'accessibilità, c'è quello dell'inquinamento, al quale anche le navi da crociera danno un contributo significativo. Tuttavia, mentre a Ovest il mare è ancora in larga parte impraticabile, l'Arpac ha dato di recente il via libera ai tuffi per il piccolo tratto di Pietrarsa, il mare che bagna Napoli a Est. Nutre fiducia in un cambiamento?

«Sì, ma bisogna attivarsi perché questo cambiamento ci sia. Bisogna iniziare delle bonifiche e avviare tutti quei processi che servono a restituire quei luoghi ai cittadini non solo in termini di rapporto con il mare, ma anche di balneabilità. Quest'anno siamo rimasti tutti positivamente sbalorditi dai dati dell'Arpac, in quanto in quelle acque finiscono gli scarichi delle aree industriali e portuali. Il Puad, il Piano di utilizzo delle aree demaniali, che definisce le percentuali tra costa in concessione e costa libera, dovrebbe garantire un'alternanza tra concessioni e aree libere balneabili e facilmente accessibili. Considerare gli accessi alle aree dove il mare non è balneabile o è difficilmente accessibili significa falsare i dati».

Intanto sul litorale domitio sventola la Bandiera Blu: è un segnale incoraggiante?

«Io sono fiduciosa per natura, ma non dobbiamo fermarci alla Bandiera Blu. C'è tanto altro su cui le amministrazioni comunali e la Regione devono lavorare. SI parla tanto delle gare e dei bandi per adeguarsi alla direttiva Bolkestein. L'importante sarebbe tener conto in questi bandi non solo criteri economici, ma che tengano dentro la sostenibilità ambientale e sociale. Non dobbiamo dimenticare che le spiagge sono fortemente soggette all'erosione e che l'innalzamento del mare continua a minacciare le coste. Le concessioni del futuro, dunque, oltre a garantire una serie di servizi essenziali dovranno garantire la sostenibilità, imponendo la rimozione dei manufatti di cemento sulle spiagge, che ci siano strutture leggere, facilmente rimovibili, autosufficienti sul piano energetico. In alcune aree gli sbancamenti per rendere la spiaggia piatta hanno distrutto il paesaggio dunale e retro dunale. La Bolkestein deve essere vista come un pretesto per definire all'interno dei bandi dei criteri che tengano conto delle questioni di cui abbiamo parlato e soprattutto del fatto che le spiagge sono destinate a subire un impatto devastante del cambiamento climatico, e le concessioni hanno ripercussioni fortissime. Su queste premesse bisogna definire i criteri per la scelta degli assegnatari».

Con buona pace dei divieti di balneazione, molti napoletani continuano a tuffarsi anche dove non si dovrebbe.

«Pur di riconquistare un diritto che di fatto è negato, da Lido Mappatella a Largo Sermoneta, da Bagnoli all'area orientale, nonostante i cartelli che indicano il pericolo, la gente in estate si riappropria di piccoli stralci di spiaggia o di scogliera. Un'affermazione di bisogni latenti che deve far riflettere. Al di là dei servizi e delle regole, il napoletano si arrangia sempre. Questo mi affascina, ma è anche un limite. Se ci sono queste consuetudini, questi usi informali, bisogna formalizzarli».