La questione meridionale, il divario cioè tra il Nord e il Sud del Paese, ha avuto negli ultimi vent’anni due date topiche. Il 2001 e il 2019.
Il 2001: l’anno della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, che, con l’argomento di dare piena attuazione all’art 5 della Costituzione, che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica, e tenuti a farsi carico dei bisogni delle popolazioni residenti nel loro territorio, in realtà provava a frenare l’autonomismo secessionista della Lega di Bossi. Pensando per questa via di sottrarre la rappresentanza della “questione del Nord” posta dal leghismo alla formazione politica di Bossi, ancorandola al quadro politico tradizionale. Con quali risultati politici – fallimentari – lo si può valutare oggi, con la Lega di Salvini ben salda al primo posto tra le forze politiche nei sondaggi, ratificati nelle urne alle ultime europee.
Quel che è accaduto è che – franato il berlusconismo, cioè la rappresentazione di interessi politici sociali ed economici sempre basati sul Nord del Paese, ma, in linea con la funzione di Milano “capitale” economica del Paese, tuttavia orientato a una vocazione nazionale, che se pure ratificandone la subalternità ha rappresentato anche il Sud – , è riemersa in tutta la sua virulenza la pretesa autonomistica – fondamentalmente una secessione mascherata, giusta l’esigenza della Lega di Salvini di farsi partito “nazionale” – del Lombardo-Veneto. Con al traino altre regioni, e purtroppo anche l’Emilia-Romagna interessata ad inserirsi, nello status quo seguito alla riforma del Titolo V, sul fronte ricco delle due Italie; status quo che Veneto e Lombardia chiedevano e chiedono di difendere, anche sul piano istituzionale, dai contraccolpi della crisi economica che investe da un decennio Italia ed Europa. E questo con un’attuazione del regionalismo differenziato, che ratificasse la situazione, in modo da rendere impossibile uno sforzo perequativo (come per altro previsto dalla legge Calderoli) che potesse ricadere sulle loro spalle, della situazione delle regioni meridionali. Situazione di ritardo e arretratezza ascritta propagandisticamente alla pessima qualità del loro ceto politico e delle loro classi dirigenti (tesi obiettivamente con qualche freccia al suo arco) e ai tradizionali vizi “antropologici” della società meridionale (tesi offensiva quanto stupida).
Quel che ancora offende la società meridionale è, in tutti questi anni, l’assordante silenzio sulla questione meridionale, uscita fuori dai radar della politica nazionale, anche di quella dei partiti del centrosinistra, a cominciare da un Pd impegnato nella vana rincorsa delle posizioni, sempre più cedevoli, del suo elettorato settentrionale.
Fortunatamente il troppo stroppia, e nel 2019 la Lega di Salvini ha trovato difficoltà impreviste nell’incasso della cambiale autonomista che aveva maturato. È un dato obiettivo che queste difficoltà sono state dovute, più che a iniziative delle forze politiche nazionali o meridionali, a un importante sussulto di qualche gruppo di intellettuali, cui Napoli ha dato un contributo che dovrebbe essere memoria fresca di tutti; e che ha impedito che il governo gialloverde potesse portare avanti nel silenzio rassegnato o acquiescente di tutti l’ultimo colpo al Sud del Paese. Si è fatta avanti l’idea, fortunatamente anche in settori importanti della maggior forza di governo, il Movimento 5Stelle, che il regionalismo alla Zaia e alla Fontana, non era solo la fine per i già precari equilibri socio-economici del Sud e uno sbrego costituzionale irrimediabile, ma avrebbe rappresentato l’affossamento di un quale che sia rilancio di un progetto unitario del Paese, che solo insieme, in un’ottica nazionale, e non rivendicazionista territoriale, al Nord come al Sud, potrà uscire, se ne sarà capace, dalla sua ormai troppo lunga stagnazione. Che la ripartenza del Sud, cioè, è un pezzo della “soluzione Paese”, e non il problema che la impedisce.
Con il governo giallorosso, con un Presidente del Consiglio che dichiara «inaccettabile che nello stesso Paese coesistano la provincia a più basso tasso di povertà (Bolzano) e tre delle regioni a più alto rischio di indigenza, tutte del Sud», e una priorità, eliminare il gap infrastrutturale tra le due Italie «con il potenziamento della rete ferroviaria, sia per quanto riguarda l'alta velocità sia il trasporto pubblico locale», finalmente il Sud e la questione meridionale tornano nell’agenda politica del Paese.
All’enunciato dell’indirizzo politico, si accompagna una presenza politica meridionale di assoluto rilievo, innanzi tutto nei numeri delle presenze. Ben 12 ministri (su 21 totali) provengono dal Mezzogiorno, ai quali si aggiunge il presidente della Camera, il napoletano Roberto Fico, confermandosi così questo in essere il governo con la più alta quota – il 55 per cento - di ministri provenienti dal Centro-Sud. Tra questi, il Ministro per il Sud e la coesione territoriale Giuseppe Provenzano, giovane economista e politico siciliano, vicedirettore di Svimez, l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, e un economista di assoluto valore come il pugliese Francesco Boccia. Non se ne può che compiacersene. Però che questa presenza oltre che di assoluto rilievo numerico sia poi di assoluto rilievo politico, lo dirà solo la qualità degli interventi che sul divario Nord-Sud, in un’ottica unitaria di interventi pro-Paese, questa presenza politica meridionale al governo saprà mettere in campo sui tanti dossier aperti.
Speriamo in questo e tifiamo per questo, perché, se così non dovesse essere, avremmo vissuto l’ennesima delusione, con per soprammercato l’amarezza di dover dire che le obiezioni alla qualità del ceto politico meridionale di Zaia e Fontana non erano poi così peregrine.
© Eugenio MazzarellaProfessore di filosofia teoretica