La levata di scudi sull'idioma vesuviano maltrattato dall'impudenza dei vent'anni infiltrò la polemica tra i fiori e le canzoni. Tra i primi a notificare la reprimenda sintattica a Geolier, il rapper reo di aver portato sul palco di Sanremo un napoletano sgrammaticato, fu Gennaro De Crescenzo, partenopeo classe 1964, scrittore, saggista, professore e archivista, fondatore del Movimento Neoborbonico.
A dire il vero, De Crescenzo, che insegna Italiano e Storia a Scampia, aveva già bacchettato una multinazionale. «Ho corretto le campagne di M&M's e Mars, che avevano realizzato delle pubblicità in napoletano: li contattai per invitarli a scrivere in modo più corretto, loro per diversi anni mi hanno mandato le locandine da rivedere», ricorda il professore non senza una punta di orgoglio. Con lui, altri intellettuali si sono scagliati contro il testo di «I p' me, tu p' te» (una dichiarazione di anarchia linguistica già dal titolo, in effetti), in difesa dell'autenticità della "lingua napoletana", alimentando una disputa che dal particolare (la semantica) si proiettava verso una dimensione universale (l'identità). Un'analisi che finiva per esaltare le crepe che da tempo immemore si sono aperte nel corpo di Napoli.
A sentire lo studioso, tuttavia, il fuoco amico su Napoli ha un mandante insospettabile. E molto illustre. «Uno degli artefici di questa spaccatura all'interno della città fu Benedetto Croce», assicura De Crescenzo, descrivendo un popolo che da 160 anni subisce gli insulti di una classe dirigente egoista e sprezzante, di una politica crapulona e di un'Italia di sopra che guarda il Sud dall'alto in basso, proprio come la sua borghesia. Un popolo - per dirla con Pino Daniele - « che cammina sotto 'o muro», ripiegato su una autofustigazione che adombra di colpevolezza tutto ciò che affonda le radici sotto il Vesuvio.
De Crescenzo, voi avete "impugnato" il testo della canzone che Geolier ha portato a Sanremo. Perché?
«La strana vicenda originata da quella canzone è stata l'occasione per farci una domanda sulla nostra identità a partire dal nostro dialetto. È stato un momento interessante, dal punto di vista culturale. I difensori del rapper hanno sostenuto che loro scrivono la lingua che parlano, come la parlano. Noi in prima battuta abbiamo mandato il testo corretto alla casa editrice, che però si è chiusa a riccio. Ma da parte nostra non c'era alcun intento persecutorio, ci siamo solo detti che il grande successo di questo ragazzo rappresentava una grande opportunità per veicolare un messaggio rispetto ad una lingua che è viva. Io ringrazio sempre anche i neomelodici più sporchi, quelli beceri che non ascolto e mi fanno venire i brividi, perché danno comunque la testimonianza di una lingua che non è la nostra ma che assume comunque varie forme.
Vuol dire che l'identità non è un'entità ontologica, ma una categoria in divenire?
«Senza dubbio. Nel caso del pezzo di Geolier, che ho sentito l'obbligo di ascoltare in quanto è un riferimento per tanti miei allievi, colpiva però il totale abbandono di qualsiasi criterio logico prima che grammaticale, con scelte che in alcuni passaggi rendono il testo incomprensibile. Nessuno pretendeva che si esprimesse con il napoletano di Di Giacomo e neanche con quello di Pino Daniele, per carità. Ma è un peccato che un testo anche più bello e meno banale di quanto si sia detto, che con qualche accorgimento poteva essere valorizzato di più, storpiasse la sintassi. Questo anche considerando che nel corso del festival la vicenda di Geolier fischiato all'Ariston è diventata la vicenda di Napoli contro il resto del mondo, con le accuse di razzismo contro la nostra città e tutto quello che ne è seguito».
Secondo lei, a chi appartiene questa identità della quale in tanti rivendicano la titolarità?
«Tutti contribuiscono a crearla: Napoli incarna una serie di contrasti, come il buon maestro Pino Daniele diceva nella sua canzone più celebre. È la bellezza, l'unicità di questa città. E questo è valso dal periodo greco in poi, quando diventammo cristiani ma restammo pagani, quando abbiamo fuso le culture orientali e da bizantini siamo diventati Ducato autonomo. Siamo diventati normanni, angioini, spagnoli, siamo stati contemporaneamente giacobini e sanfedisti, briganti e forse anche liberali. Questa città ha avuto mille anime, il che l'ha resa capace di operare una sintesi tra le sue tante identità, ma fino a un certo punto non c'era stata mai una censura al suo interno. Quando gli angioini andarono via - e non lo fecero proprio pacificamente - la prima cosa che avrebbero potuto fare sarebbe stato abbattere il Maschio Angioino per costruire un nuovo castello. Invece lo hanno conservato intatto, ci hanno solo aggiunto quell'arco meraviglioso che vediamo oggi, fatto dai più grandi scultori del tempo. Questo è il segno della Napoli plurisecolare, che ha visto la sua ricchezza, la sua unicità riconosciuta dai viaggiatori stranieri e dai grandi osservatori. Un taglio netto come quello operato dai Savoia, che arrivano qui e scalpellano i gigli dai cancelli del Palazzo Reale, cancellano lo stemma borbonico dal Teatro San Carlo e fanno mille operazioni di questo tipo, criminalizzando tutta un'epoca, quella borbonica ma anche quella precedente, c'è stato solo nel 1860, con le naturali conseguenze di una classe dirigente che si è atteggiata a classe dominante senza rispetto dell'altra parte. Come emerge anche dal vostro focus, la frattura si è verificata nell'ultimo secolo e mezzo, non a caso dopo l'unificazione d'Italia, con una certa classe dominante che ha iniziato a definire quello che era degno di essere ritenuto napoletano e quello che non lo era. Questa spaccatura tra le due città ha un nome e un cognome. Con un caro amico, anche lui studioso e appassionato di queste cose, stiamo sviluppando un testo sul periodo del Ducato napoletano, che dura dal 500 d.C. fino al 1000-1100 d.C. e rappresenta un vuoto nella storia della città. Abbiamo scoperto che uno degli artefici di questo buco clamoroso è Benedetto Croce, che avviò un grande contrasto personale con il più grande storico napoletano che abbiamo avuto, benché non conosciutissimo: Bartolomeo Capasso. Si generò una cesura tra la Napoli di Capasso e quella di Croce, che rimproverò al collega, peraltro nel giorno della sua morte, di essere troppo legato alla storia locale, sostenendo che l'idea di patria napoletana mal si conciliasse con la nuova identità di italiani e europei. La frattura di cui parliamo nasce in quegli anni e si sviluppa attraverso vari momenti storici come il 1799, che mette da una parte tutti i buoni, quelli della Repubblica, i giacobini e i francesi e dall'altra la feccia, la plebaglia, i lazzaroni, che si permisero di difendere il re Borbone e addirittura di metterlo sul trono con una vittoria che all'estero fu ritenuta epica e che invece è stata completamente cancellata dai nostri libri di storia. Lo stesso vale per la storia borbonica, dove tutto è ignoranza, tutto è sporco e cattivo, e per il brigantaggio, con tutti i briganti descritti come criminali. Ancora oggi i testi riportano tutti questa versione. A proposito, ho iniziato a vedere "Briganti", la serie tv uscita di recente su Netflix, che ha scatenato la reazione di alcuni intellettuali che temevano una versione neoborbonica del brigantaggio e forse avevano ragione, poiché si rappresenta finalmente una spaccatura netta tra i piemontesi cattivi e i briganti eroi».
A 160 anni dall'unificazione, questa è ancora una città piegata sotto il peso della Questione meridionale, una città in cerca di un riscatto e di un'assoluzione?
«Direi proprio di sì. Per molti anni abbiamo assistito alla criminalizzazione di tutto ciò che era napoletano, lingua inclusa: il dialetto veniva additato come volgare, ci siamo auto accusati di provincialismo e di localismo, come se certe cose fossero "troppo napoletane". L'orgoglio veniva messo sotto i piedi. Questo atteggiamento è proseguito fino ai nostri giorni, se pensiamo che ci si chiudeva nel palazzo dell'Istituto per gli Studi filosofici a discettare del 1799 senza pensare che la Rivoluzione costò al popolo napoletano oltre 60.000 morti passati "a fil di spada". Se parli con loro, però, ti dicono che quelli erano tutti lazzaroni, che tutto sommato meritavano di morire. Guai a dirlo: appena qualcuno si permetteva di contrastare la vulgata risorgimentista, veniva censurato, tagliato. Ancora oggi, sfogliando i libri di storia e i vocabolari c'è un'accezione esclusivamente negativa associata al termine "borbonico". Del 1799 si ricordano le esecuzioni di Eleonora de Fonseca o Maria Luisa Sanfelice, non quelle di Concetta D'Addario o Nunzia Filosa. Questa visione è un elemento della città: perché rinnegarlo? Se pian piano si è affermata una nuova storia è forse anche grazie alle nostre provocazioni, che qualche risultato lo hanno ottenuto. Si sono diffusi un senso comune e un orgoglio nuovi».
Ritiene che l'identità di Napoli sia stata usurpata o almeno intaccata dalla creazione dello Stato nazionale?
«A mio avviso, uno dei danni più grandi dell'unificazione non è stato il massacro, che pure è avvenuto, di centinaia di migliaia di persone, né il saccheggio delle banche o i fallimenti delle industrie, che in qualche modo si superano, ma la disidentificazione di un popolo. Ci siamo vergognati per troppo tempo della nostra appartenenza. Quando un drappello di volontari sfilò a testa alta da via Toledo a via Foria per andare a difendere il re, che era a Gaeta, un generale sabaudo esclamò: "Questi non hanno vergogna a dirsi napoletani". Ancora oggi siamo vittime di un complesso di superiorità padano e di un nostro complesso di inferiorità inculcato da secoli, che ci intrappola senza motivo per 160 anni. Noi saremmo per un mix di identità, come è stato nel corso dei secoli, che rispetti le identità precedenti. Ripeto, la napoletanità è composta da tutta una serie di elementi e non dobbiamo rinnegare niente. Napoli è Geolier, Eduardo, Pino Daniele, Totò, Troisi, Avitabile. E credo sia giusto sottolineare che in ogni caso primeggiamo. Io ho fondato il Movimento neo borbonico perché sul bus che prendevo per andare all'università c'era sempre un vecchietto che diceva "Simmo 'a munnezza d'a gente". Io non mi riconoscevo in quella definizione. Per carità, qui c'è tanta delinquenza, ma non più che in altre metropoli del mondo. Solo che quando qualcuno muore di morte violenta a Napoli giornali e tv chiamano il sociologo; quando succede a Milano, interpellano lo psichiatra. Se non ci liberiamo di queste trappole, di questi condizionamenti, la Questione meridionale e quella napoletana non le risolviamo».
Al di là del facile sensazionalismo dei media e di una rappresentazione adagiata sui cliché, però, qui abbiamo delle voragini sul terreno del senso civico che altrove non hanno.
«Certo, ma si dice sempre che bisogna fare autocritica. Lo facciamo da 160 anni, e a vedere com'è ridotta la nostra città e come è ridotto il Sud non mi pare che questa autocritica abbia risolto i problemi. Credo invece che sia necessario un processo contrario: quello della fierezza che ti spinge a pretendere diritti che altrove valgono e qui o non ci sono o vengono presentati sotto forma di concessioni».
Di fronte a questi problemi ravvede un disimpegno da parte dell'élite economica, sociale e culturale?
«Purtroppo sì. Avremmo bisogno di una classe dirigente fiera, radicata, appassionata che lavori per non far partire i nostri giovani che vogliono restare, come capita a tanti miei alunni di Scampia. Se vogliono andare, vadano, ci mancherebbe. Ma se vogliono lavorare e vivere nella loro città devono essere messi in condizioni di farlo. Il problema è che qualcuno pensa che in fondo non ci meritiamo le occasioni che la gente ha altrove. Al di là dei colori politici, se si vede la storia di questa città, non si può non osservare che nell'ultimo mezzo secolo abbiamo avuto classi dirigenti che hanno fatto i loro interessi, spesso non puliti, sulla pelle della povera gente. Vero, succede anche al Nord. Ma quando lavori sulla precarietà, su un tessuto economico-sociale così fragile, quando la gente non ha i soldi neanche per curarsi e per sopravvivere, le colpe diventano imperdonabili. E sono colpe ricorrenti. Al Sud mancano da 160 anni classi dirigenti consapevoli, a testa alta. Abbiamo visto che anche i sindaci che potevano essere i simboli della rivendicazione di certi diritti, alla fine, inglobati dal sistema, si sono tirati dietro. Al di là delle sortite demagogiche, non ricordo scatti di orgoglio concreti da parte di un primo cittadino, ed è grave».
Come è noto, il sistema di clientele imbastito e alimentato dalla politica si regge proprio sul ricatto che il potere agisce nei confronti della povera gente. E la povertà, in Italia, si concentra soprattutto al Sud.
«Proprio così. L'indigenza non ti consente di fare delle grandi scelte ideali e elettorali. Questo è il motivo per cui il popolo arriva alla conclusione che i politici sono tutti uguali. Se ci pensiamo, filosoficamente, tra i 50 euro in cambio del voto e le promesse di un futuro migliore che non arriverà non c'è tanta differenza. Sarà triste, deprimente, ma è la verità. Eppure, anche se i nostri sindaci sono stati deludenti, ciascuno a modo suo, questa città sul piano politico è stata molte volte un laboratorio, un'avanguardia».
Esiste un problema di coesione sociale? Chi sostiene che il corpo di Napoli sia frammentato, spaccato, percorso da crepe insanabili, dice il vero?
«Temo di sì. Ci sono dei punti di contatto tra i ceti: il calcio, una certa cultura teatrale, simboli come Pino Daniele, Troisi, Maradona, che sono trasversali e compattano questa città. Per il resto, temo che la spaccatura tra la classe dirigente e il resto della popolazione sia soprattutto l'eredità di questo mitico 1799. Non a caso, La Capria parlava di armonia perduta, sostenendo che in quel momento la città si è spaccata in due anche fisicamente intorno alla difesa dei Borbone. Io, che sono nato alla Ferrovia e insegno a Scampia, mi riconosco nella Napoli dei quartieri popolari. Lì ci sono tante degenerazioni che nessuno nega, ma dobbiamo riconoscere che in questi 150 anni abbiamo avuto delle classi dirigenti che hanno coltivato solo interessi particolari, chiuse nelle loro ville a Posillipo, nei loro istituti culturali mantenuti con danaro pubblico, nelle loro cattedre universitarie. Abbiamo vissuto sotto la cappa di un'élite che non rappresenta la città reale e che spesso si arrocca nei suoi piccoli forti - i salotti, le accademie universitarie, le direzioni dei giornali -, guardando dall'alto, con distacco, con snobismo e a volte anche con disprezzo il resto della città. Possiamo e dobbiamo dirlo: siamo stati governati proprio male, da amministratori totalmente inadeguati».
© Davide Cerbone