Clemente (Cnr): «Il mare per tutti è un'utopia»

«Coste e acque non bastano: servono regole condivise per tutelare i diritti di tutti, ma prima ancora l'ambiente»

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Quella curva ampia e sinuosa disegnata sotto il Vesuvio non smette di esercitare il suo fascino. Il golfo di Napoli, topos iconografico eternato in milioni di scatti, è uno dei più attrattivi al mondo anche per yacht e navi extra lusso. Più della Costa Smeralda e della Costa Azzurra, di Barcellona e delle Baleari. Tutti felici e contenti, dunque? Non proprio. Perché il mare che bagna la cartolina più spedita è tanto desiderabile da ritrovarsi, suo malgrado, al centro di dispute roventi quanto il solleone d'agosto. Più che ambito, insomma, è conteso.

Così, mentre ci si approssima all'estate, sale la temperatura intorno al tema della balneazione. E si ripropone l'antinomia tra soldi e etica, crescita economica e sviluppo ecosostenibile, tutela di posizioni privatistiche e difesa dell'ambiente naturale. Istanze in molti casi confliggenti sulle quali Massimo Clemente, direttore dell'Istituto di Ricerca su Innovazione e Servizi per lo Sviluppo del Cnr e presidente della Consulta delle costruzioni, nella quale converge l'intera filiera del settore, ha un'idea al tempo stesso ecumenica e pragmatica. «Il mare e la costa a nostra disposizione non sono sufficienti per tutti: bisogna farsene una ragione e darsi un sistema di regole che soddisfi il più possibile tutti e che prima ancora tuteli l'ambiente», taglia corto Clemente, che è docente universitario e ha coordinato numerosi progetti di ricerca, alta formazione e sperimentazione sui temi dell'urbanistica e della rigenerazione urbana, con particolare attenzione ai sistemi territoriali mare-città-regione, alle aree urbane costiere e ai waterfront portuali. «Se utilizziamo il mare e le coste in maniera indiscriminata, finiamo per pregiudicare la possibilità di fruirne per le generazioni future», sostiene l'architetto, già nel Comitato di gestione dell'Autorità di sistema portuale del Mar Tirreno centrale e tra i fondatori dell'associazione Friends of Molo San Vincenzo, che da anni lavora per restituire alla città il pontile borbonico di circa 2 chilometri proteso a mare.

Qual è oggi il rapporto della nostra città con il suo mare?

«Il rapporto tra mare e città è forte, ed è parte del patrimonio culturale immateriale di Napoli. Senza dubbio abbiamo una forte identità marittima, che però dovrebbe essere declinata attraverso azioni concrete di rigenerazione del nostro waterfront. Dobbiamo fare un ragionamento complessivo su tutta la costa metropolitana per renderla accessibile, trovando le modalità affinché tutti ne possano fruire in maniera equa e sostenibile. A Napoli, abbiamo lungo la costa una serie di edifici e spazi che andrebbero recuperati in una visione non solo cittadina ma metropolitana, anche per distribuire meglio la pressione lungo il waterfront. Non è giusto che solo pochi privilegiati possano fruire del mare, ma non è neanche possibile  accalcare tutti nella spiaggetta a Posillipo di poche centinaia di metri. Nell'ambito della Naples Shipping Week del prossimo settembre, stiamo organizzando un incontro bilaterale con la Spagna che offre esperienze interessanti e replicabili. Sono tornato pochi giorni fa da Barcellona: in vista della prossima Coppa America stanno rivisitando, riqualificando e rigenerando gli interventi fatti per le Olimpiadi del 1992. Il Port Vell, istituzione specifica dedicata alla governance del porto storico di Barcellona, destinato ad ospitare la manifestazione, ha messo in campo una serie di interventi con una visione generale e policentrica, funzionale alla manifestazione ma utile per la città e per i cittadini».

Si pone, a questo proposito, un tema di democrazia.

«Sicuramente c'è un tema di accesso al mare e un diritto a fruire del mare anche solo per vederlo, per fare una passeggiata lungo la costa. E c'è un tema di domanda che è cresciuta molto. Un noto albergatore mi diceva che anche i turisti, a Santa Lucia, uscendo dalla hall chiedono: "Where is the beach?" ».

Un'aspettativa che qui è destinata ad essere delusa.

«Sì. A Barcellona vi è la Barceloneta, a Valencia la Malvarrosa, qui non ci sono spiagge pubbliche. D'altro canto, non si possono aprire parti di spiaggia senza regole certe e chiare, altrimenti si potrebbero creare delle situazioni dall'impatto ambientale molto forte senza garantire una fruizione corretta. Prima ancora della fruizione, va messo in sicurezza l'accesso al mare e va tenuto presente che il mare e la spiaggia sono innanzitutto un ecosistema da tutelare. Ci sono tante esperienze al livello internazionale dalle quali si può prendere esempio, ma serve la collaborazione di tutti i soggetti. Per esempio, non avere comitati "contro", ma comitati "pro", non avere delle istituzioni contrapposte tra loro, ma armarsi di buona volontà per trovare con un approccio costruttivo soluzioni il più possibile condivise, con la collaborazione di università, centri di ricerca e associazionismo. Il primo obiettivo deve essere tutelare il paesaggio marittimo attraverso regole che limitino la pressione antropica sia sul mare che sulla costa. In questa prospettiva, la politica è il principale attore che deve trovare una composizione tra le varie istanze pubbliche e private per la tutela delle spiagge e del mare. I comitati possono attivarsi e dialogare con i vari attori del territorio ma dobbiamo ricordare che si tratta di gruppi di cittadini con le loro istanze e non di soggetti istituzionali».

Dunque, il numero chiuso per l'accesso ad alcune spiagge pubbliche di Napoli la trova favorevole?

«Più che di numero chiuso, parlerei di una regolamentazione nell'ottica della sostenibilità e di una gestione che sia rispettosa dell'ambiente naturale. È un principio che punta a non compromettere le risorse di oggi per le generazioni future. Se noi utilizziamo un tratto di mare in maniera indiscriminata, stiamo pregiudicando l'utilizzo per chi verrà dopo di noi. Se ad esempio in una baia come quella del Cenito, a Posillipo, si ancorano 300-400 barche, il fondale marino viene distrutto. Così facendo, non abbiamo reso il mare accessibile a tutti, ma lo abbiamo rovinato. Lo stesso vale per l'utilizzo delle spiagge: come per le città si parla di capacità insediativa di una certa area facendo riferimento al limite di abitanti e vani che è giusto prevedere, lo stesso discorso va fatto per il peso antropico in mare e sulla costa. Una spiaggia non può ospitare oltre un certo numero di persone perché l'impatto umano sarebbe troppo forte, per questo è necessario programmare gli accessi anche prevedendo dei turni. Come dicevo, sicuramente c'è un diritto a fruire e godere del mare, ma bisogna trovare il modo giusto per farlo e privilegiare innanzitutto la tutela del mare e della costa come ecosistemi per il benessere collettivo».

Il Comitato Mare libero e gratuito ha posto però la questione delle concessioni balneari, sulla quale si è espresso il Consiglio di Stato con una sentenza nella quale si sottolinea che la risorsa spiaggia è «scarsa».

«La questione è giusta, ma la soluzione non è facile. Alla fine anche il comitato è un gruppo di cittadini che non rappresenta tutte le istanze nella loro complessità. Credo nella politica che deve avere la capacità di comporre tutte le esigenze in una logica di sostenibilità. C'è una sostenibilità ambientale, una sostenibilità economica e una sostenibilità sociale e poi c'è una "cultura della sostenibilità" da ridefinire. Questo equilibrio va costruito, e non è semplice. Lo slogan "il mare per tutti" non funziona, poiché non c'è mare a sufficienza. La retorica "apriamo la spiaggia indiscriminatamente" è assolutamente non sostenibile, così come non fu sostenibile alcuni anni fa l'idea di chiudere tutto il lungomare di Napoli senza un piano di riorganizzazione della mobilità. La contrapposizione avviene sempre perché ci sono delle radicalizzazioni, da tutte le parti. Per me ci vuole la buona volontà da parte di tutti. I rinvii non aiutano, così come non aiutano gli approcci integralisti. Dobbiamo inventarci una modalità resiliente e collaborativa per cui nessuno venga penalizzato, ma soprattutto non venga penalizzato il mare, che deve essere il protagonista, così come la spiaggia e la costa. La prima tutela deve essere quella, non dobbiamo mai perderlo di vista».

Qualche domenica fa il mare ha restituito il corpo senza vita di Cristina Frazzica, ricercatrice di 30 anni travolta e uccisa nel mare di Posillipo, al largo di Villa Rosbery.

«Le autorità competenti stanno indagando, per cui non entro nel merito dell'episodio, ma posso dire senz'altro che questa tragedia ha fatto venire fuori in tutta la sua complessità il tema del consumo eccessivo di mare e la conseguente pericolosità. Analogamente al consumo di suolo di cui si discute in urbanistica, il "consumo di mare", del quale ho già parlato anni fa in articoli e convegni scientifici, è inteso come densità d'uso da parte dell'uomo espressa, in mare, dal rapporto tra imbarcazioni e superficie dell'acqua e, sulla costa, da superficie della spiaggia e bagnanti. L'insufficiente quantità di mare e costa a disposizione pro capite, per una città metropolitana di 3 milioni di abitanti ai quali vanno aggiunti i tanti turisti, determina una pressione antropica tale per cui non c'è né litorale né mare sufficiente per assorbire tante persone e tante barche. Tutti vogliono andare a mare e in spiaggia, ma non c'è capienza, c'è poco da fare. Non si può più ignorare la quantità di barche che vanno per mare e le modalità di conduzione delle imbarcazioni stesse che sono sotto gli occhi di tutti. Al di là del codice della navigazione, certe regole di condotta sono scontate per chiunque vada per mare e abbia un minimo di coscienza. Purtroppo, però, non tutti sono dotati di questa coscienza. Vediamo natanti che procedono a velocità folle, addirittura mettono il pilota automatico in vicinanza della costa. Per questo sostengo che al di fuori dei porti dovrebbero essere predisposti dei canali di avvicinamento alla costa delimitati da boe e regolati da limiti di velocità. Con la densità di imbarcazioni che c'è, la navigazione libera non è pensabile. Per entrare e uscire da Mergellina e dagli altri porticcioli e approdi, da Coroglio a Santa Lucia, dovrebbero esserci rotte obbligate delimitate da boe. Allo stesso tempo sarebbe opportuno prevedere campi boa e non consentire il libero ancoraggio lungo tratti di costa di assoluto valore ambientale come la Baia del Cenito o Trentaremi».

Insomma, si tratta di contrastare la deregulation.

«C'è un consumo di mare eccessivo che va limitato e regolamentato. Tutti insieme, istituzioni, associazioni, centri di ricerca e università, dobbiamo discutere con serenità di un problema che non è stato ancora affrontato compiutamente e in modo integrato. Dobbiamo darci un sistema di regole condivise e certe, altrimenti non ne veniamo a capo».

Le due parti della città, quella solida e quella liquida, dialogano come dovrebbero, mettendo a reddito le opportunità offerte dalla risorsa mare? C'è un equilibrio? C'è uno scambio? Ci sono ancora molte potenzialità inespresse?

«Tradizionalmente, il cluster marittimo è sempre stato poco integrato con la città. C'era mondo di terra e mondo di mare. Negli ultimi dieci anni, il nostro gruppo di ricerca insieme al CNR, le Università e associazioni come l'aniai Campania e il Propeller Club, hanno contribuito ad aprire un dialogo. Si è sviluppato e intensificato un dialogo tra i mondi imprenditoriali sul quale bisogna insistere. Rafforzare questa integrazione tra mare e terra è la sfida che abbiamo davanti. A settembre la Naples Shipping Week sarà un'altra opportunità per lavorare su questa corrispondenza».

Avete messo in relazione il settore marittimo con quello delle costruzioni per generare opportunità economiche e benessere sociale. La Consulta delle costruzioni, di cui lei è presidente, ha avuto in questo senso un ruolo cruciale.

«La filiera delle costruzioni è un settore trainante per lo sviluppo economico e sociale di Napoli e della Campania. In questi anni, la Consulta ha svolto un ruolo molto importante di approfondimento, proposizione e mediazione, a vantaggio non solo del comparto dell'edilizia ma di tutta la comunità urbana. Il dialogo e l'interazione tra ricerca, associazioni di categoria e istituzioni possono attivare processi collaborativi di rigenerazione urbana sostenibile in una prospettiva di economia circolare: la Consulta continuerà a favorire la collaborazione tra soggetti diversi e complementari, attraverso la condivisione degli obiettivi strategici e delle scelte operative. L'industria delle costruzioni, intesa nell'accezione più ampia del termine, può e vuole contribuire a migliorare le nostre città e la qualità di vita dei cittadini».

In questo disegno si inscrive l'ostinata e faticosa esperienza di recupero del Molo San Vincenzo per riconsegnare alla città una passeggiata a mare negata da decenni.

«Quell'esperienza di alta formazione è nata più di 10 anni fa con Caterina Arcidiacono, Alessandro Castagnaro, Umberto Masucci e tanti altri, attraverso una ricerca e un'esperienza di alta formazione in cui si sviluppavano processi collaborativi e senza dubbio rappresenta un esempio virtuoso. È vero che va un po' a rilento, ma di fatto è riuscita a far scoprire alla città una parte del suo patrimonio e oggi le istituzioni se ne stanno interessando attraverso un accordo sottoscritto e uno stanziamento di fondi. Ora si dovrebbe completare lo sforzo, utilizzando il molo con uno sviluppo dal punto di vista nautico, che si tratti di mega yacht o delle navi da crociera più piccole. Anche come comunità dobbiamo operare delle scelte in un clima di concertazione tra i diversi attori istituzionali coinvolti. È una risorsa che va utilizzata, bisogna andare avanti in quel processo che è stato avviato. Siamo partiti con il presidente Spirito, poi con il presidente Annunziata, il sindaco Manfredi ha seguito la questione con l'assessore Cosenza con molta attenzione».

Oggi che prospettive intravede?

«Faticosamente si sta andando avanti. Quando si parla di questi processi di trasformazione urbana ricordo che il waterfront di New York, che negli anni 2000 ha trovato una sua definizione e si è riconnesso alla città, prima era una zona fortemente degradata nella quale fu ambientato il film "Fronte del porto". Dalle interrogazioni che nacquero al Comune di New York sul degrado e sulla criminalità nella zona nacque un movimento che ha portato alla riqualificazione con un bellissimo parco urbano. I tempi quindi sono stati lunghi, lo saranno anche qui, ma non ci dobbiamo fermare e dobbiamo andare avanti sul percorso tracciato, facendo un pezzo alla volta, anche in questo caso senza conflitti né con la Marina militare né con gli armatori né con i costruttori. La capacità delle istituzioni deve essere quella di coinvolgere tutti i soggetti e trovare delle soluzioni che siano vincenti per tutti. Al momento c'è un progetto in corso di definizione e appalto al Comune di Napoli per una passerella che bypassi la base militare e dal lato del Molosiglio arrivi a guadagnare il molo dall'esterno, risolvendo il problema dell'accesso. È un passo molto importante, il Comune ha stanziato circa 6 milioni di euro, quindi il percorso per realizzare questa prima parte è stato avviato».

Intanto, la Stazione marittima di Napoli ha cambiato volto. Come valuta gli interventi al Molo Beverello?

«Sono state fatte certamente cose interessanti, compreso l'accesso alla stazione della metropolitana. Molto meglio del disastro che c'era prima, questo è fuori discussione. C'è però un discorso complessivo sull'area del porto storico su cui deve essere presa una decisione. Dobbiamo interrogarci su cosa vogliamo che diventi quell'area per stabilire se debba essere parte del porto o debba diventare parte della città. Sono scelte politiche, vanno tutte bene ma a patto che siano portate fino in fondo. Il porto antico di Genova e quello di Barcellona sono diventati parte della città. Questo significa riorganizzare il porto nel suo complesso. Se invece vogliamo che diventi un porto soprattutto per le crociere, dobbiamo fare scelte conseguenti. Per capirci: se la scelta politica è quella di far dialogare la Stazione marittima con la città, la destinazione d'uso dell'edificio dei Magazzini generali deve essere più urbana che portuale; se invece vogliamo aumentare il traffico crocieristico, ci facciamo un terminal crocieristico. L'importante è non tenerlo così. Tocca a Comune e Autorità portuale, tra i quali so che ci sono ottimi rapporti, decidere attraverso il dialogo cosa fare. Con l'auspicio che non arrivi un altro sindaco o un altro presidente dell'Autorità a disfare tutto. Per scongiurare questo rischio, è importante la condivisione con la città, con il coinvolgimento di tutti gli attori, dai cittadini alle università, per un uso sostenibile del paesaggio culturale e dell'identità marittima della nostra Napoli».