La Museum Insel, l’Isola dei Musei, è un imprevedibile luogo urbano nel cuore di una città altrettanto singolare come Berlino. Circondata dai canali della Spree e del Kupfergraben e apprezzabile nel suo carattere insulare solo “a volo d’uccello”, la Museum Insel è diventata, nel corso del XIX secolo, il romantico approdo di edifici museali caratterizzati ciascuno da una funzione ben definita: il Bodemuseum, la Alte Nationalgalerie, il Pergamonmuseum e il Neues Museum.
Edifici parzialmente sfuggiti alla distruzione della guerra e rientrati in quel complesso di superstiti frammenti architettonici a partire dai quali si è tentato di ricomporre un’immagine del centro di Berlino tra contraddizioni e difficoltà. Difficoltà che nel vicino Unter den Linden e dintorni prendono forma nella trionfale quanto disordinata marcia di campioni, linguaggi e pratiche architettoniche.
Dalla Pariserplatz con la ricostruzione filologica dell’Hotel Adlon all’irrealizzato mosaico di “frantumi” architettonici immaginato da Daniel Libeskind per l’Alexanderplatz, passando per l’enfasi monumentale della ex-ambasciata Sovietica e il lapidario memorial tessuto da Eisenman per gli ebrei europei annientati dalla Shoah.
Tra i tentativi di ricostruire dalle rovine un’immagine sia pure approssimativa del centro storico di Berlino rientra il concorso ad inviti rivolto nella primavera del 1994 a 18 studi di architettura per il riassetto della Museuminsel e la ricostruzione del Neues Museum realizzato tra il 1841 e il 1859 dall’allievo di Schinkel, August Stüler, in gran parte distrutto dai bombardamenti e dall’abbandono dei primi anni del dopoguerra. Nato per custodire la celebre collezione berlinese di copie, insieme alla sala etnografica, a quella egiziana e al gabinetto delle incisioni il Neues Museum era collegato all’Altes Museum e fronteggiato, fino agli anni trenta, dall’edificio del Packhof – dello stesso Schinkel – disposto lungo il canale del Kupfergraben e infine demolito a causa della cedevolezza del fondo sabbioso su cui si ergeva.
Il bando della primavera del 1994 richiedeva il completamento del Neues Museum – parzialmente distrutto – con ampliamento verso il Kupfergraben, la realizzazione o ricostruzione dei corpi di collegamento col Pergamonmuseum e l’Altes Museum, l’accorpamento delle raccolte; l’individuazione dell’accesso ai singoli edifici sia per le visite parziali, sia per la visita “veloce” di tutti i musei.
Giorgio Grassi si aggiudica il concorso con un progetto che suscita perplessità in alcuni membri della commissione giudicatrice per una presunta sottovalutazione delle esigenze funzionali richieste dal bando.
David Chipperfield, che si classifica secondo, è l’unico concorrente a proporre la ricostruzione effettiva e filologica del museo di Stüler. Sull’area di sedime lasciata libera dal Packhof l’architetto inglese immagina di posare un’edificio in vetro e acciaio, una lieve e scintillante teca espositiva che riflette le acque del Kupfergraben.
Le divergenze insuperabili tra Grassi e parte dell’ établissement culturale berlinese portano all’affidamento proprio a Chipperfield dell’incarico del masterplan per il riassetto della Museum Insel in uno con il progetto per la ricostruzione del Neues Museum.
Chipperfield, che alla sapienza architettonica sposa l’arte diplomatica, elabora un progetto che trova il consenso di conservatori di monumenti, critici, parlamentari, e persino della sovrintendenza urbanistica di Berlino, che, tuttavia, lo persuade a rinunciare al vetro e all’acciaio del nuovo edificio per un più convenzionale portico in pietra la cui fitta e regolare cadenza dei pilastri è una cifra a cui l’architetto inglese è ricorso e ricorrerà in occasioni analoghe.
E proprio i lunghi porticati, secondo il masterplan, diventeranno una sorta di propilei alla polis della cultura che l’intera isola rappresenta.
Qui sono previsti infatti guardadaroba, gli spazi per le mostre temporanee, i negozi, un salone per gli spettacoli e le caffetterie.
Il differente stato di conservazione delle diverse parti dell’edificio, dei partiti decorativi interni ed esterni, delle pitture parietali, delle strutture in ferro battuto ha progressivamente indotto Chipperfield ad abbandonare l’approccio più radicale di ricostruzione del 1994 in favore di un restauro che non altera i segni del passato fino a renderlo irriconoscibile, né respinge il nuovo per realizzare una mera operazione di “ricucitura” dell’antico.
E così i grandi vuoti all’interno delle facciate vengono riempiti da strette fasce di mattoni di Brandeburgo che, in luogo delle tradizionali pietre quadrate intonacate, mostrano la parte nuova evitando uno stridente distacco da quella preesistente.
All’interno del museo, le decorazioni parietali scampate alla distruzione sono state inserite su cocciopesto dipinto secondo accoppiamenti cromatici appropriati, in modo che appaiano continue e coerenti senza bisogno di procedere ad un rifacimento delle stesse.
Chipperfield rinuncia anche alla ricostruzione di quello che era un tempo l”Aegyptischer Hof” per una nuova architettura inserita nello spazio rimasto vuoto. La corte collega con la prevista “Archäologische Promenade” – che unisce i musei archeologici del piano terra e del seminterrato – con gli spazi espositivi veri e propri della sezione egizia.
Un progetto discusso, complesso, controverso ma dalla valenza architettonica ed urbana, che, fatte le debite differenze, induce a pensare cosa si potrebbe fare se si volesse dare senso ai nostri grandi monumenti incompiuti come l’Albergo dei Poveri o alla nascita di quella che potrebbe essere la “nostra Isola dei Musei”, il centro monumentale rappresentato da Piazza Plebiscito, dal Teatro S. Carlo, dalla Galleria Umberto I, dal Palazzo Reale e da Castelnuovo.