Per costruire un nuovo brand Napoli è necessario incrementare il soft power della città. E per produrre soft power bisogna investire in soft culture. Che nella società della visione è soprattutto immateriale. In questo senso la kermesse di D&G, lo sbarco di Apple, le mosse azzeccate dei nuovi soprintendenti di Paestum, Capodimonte, di Pompei, dell’Archeologico hanno il merito incalcolabile di schiodare l’immagine della città da quel format anomico che la soffoca come una cappa luttuosa.
Oggi per costruire la reputazione di un paese, che è lo zoccolo duro del suo soft power, una buona idea che diventa virale può valere più di una cattedrale. E per avere prestigio e influenza in un mondo iperconnesso come il nostro, bisogna occupare posizioni strategiche nei flussi della comunicazione. Dove gli attori e i fattori positivi si sono moltiplicati in maniera esponenziale. Nel senso che ciascuno può produrre innovazione con una pensata vincente. Con una velocità impossibile per le macchine istituzionali. In realtà, in una città giovane come la nostra, ogni under è una start up potenziale. Bisogna investire su questa energia. In grado di far zampillare idee in maniera democratica, con una rapidità che rasenta l’istantaneità. Ecco perché l’abbattimento del digital divide che incide il corpo di Napoli, come una faglia tecnologica e antropologica, potrebbe diventare quello che in altri tempi furono le campagne contro l’analfabetismo. Non possiamo accontentarci di campare di rendita sulle royalties del nostro passato. Offriamo una chance alle risorse umane da troppo tempo in panchina e smetteremo di essere donatori di sangue giovane, esportatori di intelligenze migranti.
© Marino NiolaOrdinario di Antropologia dei simboli, Antropologia delle arti e della performance