Nel dibattito sull’economia italiana numerosi commentatori, e autorevolmente il ministro de Vincenti, ritengono che le risorse pubbliche per il Mezzogiorno siano adeguate e che i fondi europei abbiano un carattere aggiuntivo, e non sostitutivo, rispetto agli investimenti pubblici nazionali. In realtà si tratta di affermazioni molto criticabili. Per cominciare, domandiamoci: come dovrebbe essere misurata l’adeguatezza delle risorse pubbliche? Evidentemente, il riferimento dovrebbe essere costituito dallo stanziamento necessario a cogliere l’obiettivo di politica economica che ci si pone. E dunque, se l’obiettivo fosse – come sarebbe auspicabile – il mettere in moto un processo di crescita duraturo del Mezzogiorno, tale da ridurre il divario rispetto al resto del Paese e contribuire al rilancio dell’economia nazionale, allora dovremmo concludere che le risorse disponibili sono largamente insufficienti.
Per comprendere questa conclusione occorrerebbe considerare cosa è accaduto nel Mezzogiorno d’Italia, almeno dalla crisi del 2008 in poi. Un dato può subito chiarire le cose: mentre il valore della produzione di beni e servizi dell’Italia nel suo insieme si è ridotto rispetto al 2008 di 7 punti percentuali, nel Mezzogiorno la riduzione della produzione è stata pari a circa il doppio. Se consideriamo che l’eurozona nel suo insieme è lievemente cresciuta, comprendiamo quanto si sia aggravata in questi anni la condizione di questa parte del Paese. A ben vedere, un destino che il Mezzogiorno italiano ha condiviso con tutti gli altri Mezzogiorni d’Europa. In effetti, dovrebbe essere sufficiente leggere le statistiche AMECO della Commissione Europea per comprendere ciò che le analisi econometriche più sofisticate confermano accuratamente: in Europa vi sono processi di divergenza impetuosi che creano un fossato sempre più profondo tra le aree centrali e quelle periferiche.
Lo sviluppo, insomma, non si sta diffondendo in modo omogeneo nell’eurozona ma piuttosto tende a concentrarsi in alcune aree, al punto che nella letteratura scientifica si parla di una “mezzogiornification” europea . Insomma, non solo in questi anni è cresciuto il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord, ma questo divario rispetto alle aree avanzate di Europa (Germania in testa) è addirittura esploso. Molto semplicemente, l’unificazione monetaria, le politiche di austerità, la liberalizzazione dei movimenti di lavoro e capitale, anziché favorire il riequilibrio territoriale, hanno alimentato quei processi circolari e cumulativi che tendono a concentrare lo sviluppo in alcune aree, producendo nel resto del Continente fenomeni di impoverimento.
Il paragone con la Germania, e in particolare con la vicenda della riunificazione delle due Germanie, può essere utile . È noto, infatti, che dopo la riunificazione avvenuta nel 1990, è stato possibile ridurre drasticamente la differenza tra i redditi pro capite degli abitanti dell’Est e quelli dell’Ovest, attivando un processo di convergenza che sta permettendo ai Länder dell’Est di avvicinarsi ai ritmi di crescita dell’Ovest. Ma ciò non è avvenuto a basso costo. Infatti, dopo i fallimenti a catena delle imprese orientali all’indomani della riunificazione, per contrastare i processi di desertificazione dell’Est e le migrazioni di massa, il governo tedesco ha stanziato cifre imponenti: tra investimenti in infrastrutture e spesa sociale, di parla di oltre 1600 miliardi di euro, e gli investimenti pubblici continuano tutt’oggi.
Rispetto a tutto ciò i fondi strutturali previsti dall’Unione Europea per le regioni in ritardo di sviluppo, equivalenti ad appena mezzo punto di Pil dell’intera eurozona, sono manifestamente insufficienti a contrastare i processi di divergenza in atto e a permettere virtuosi processi di convergenza territoriale. E ciò vale anche per la programmazione 2014-2020 nel Mezzogiorno d’Italia.
A ciò si aggiunge che negli scorsi anni si è assistito nel Mezzogiorno e nell’intero Paese a un drammatico crollo degli investimenti pubblici nazionali ed anche della spesa corrente pubblica pro capite , per cui i fondi europei (ovviamente inclusivi del cofinanziamento nazionale) sono rimasti l’unica vera risorsa finanziaria a disposizione dello sviluppo del nostro Mezzogiorno. In questo senso, difficilmente si può negare che i fondi europei siano stati largamente sostitutivi dell’intervento nazionale, e non certo addizionali, come avrebbero dovuto essere. Chi avesse dubbi a riguardo può consultare la Relazione annuale del Sistema Conti Pubblici Territoriali, nella quale si evince che la spesa media annuale per interventi nazionali finalizzati allo sviluppo del Mezzogiorno si è ridotta dallo 0,85% del Pil nazionale degli anni ’70 al misero 0,15% del periodo 2011-2015.
Con tutto ciò non si intende affermare che le politiche di sviluppo del Mezzogiorno dipendano esclusivamente dalle risorse finanziarie e tanto meno che non conti il modo in cui vengono spesi i fondi pubblici (troppe volte sperperati nel Mezzogiorno, per fenomeni di clientelismo, per inefficienze di programmazione e amministrative, per assenza di coordinamento tra le Regioni). Né si intende negare che negli ultimi anni siano stati fatti passi significativi, incluse la creazione della Agenzia per la Coesione e il Ministero per la Coesione Territoriale e il Mezzogiorno. Ma sia chiaro che le risorse sono insufficienti a mettere in moto uno sviluppo duraturo, capace di ridurre significativamente il divario rispetto al Centro-Nord.