La recente campagna elettorale per il rinnovo dell’amministrazione comunale non ha per nulla affrontato il futuro della città nella sua complessità, riproponendo una sterile contrapposizione tra il fascino dell’utopia post-politica ed un programma basato su una sommatoria di interventi finalizzati al consenso elettorale. Eppure il ruolo strategico delle grandi città e delle aree metropolitane appare ormai inscritto nella cultura e nella politica del futuro, innanzitutto nell’ambizioso obiettivo dell’Unione Europea che prevede di investire entro il 2020 il 50% del FERS (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) nelle maggiori conurbazioni. Parliamo di circa 90 miliardi di Euro a disposizione delle grandi aree urbane per promuovere lo sviluppo economico e sociale e per rilanciarne la competitività a scala internazionale e globale. Da qui l’urgenza di rivedere la mission strategica delle grandi città in uno scacchiere geo-politico estremamente dinamico sotto la spinta dell’innovazione declinata nelle sue diverse componenti, istituzionali, funzionali e sociali. Ha ragione Renzo Piano quando ci ricorda che ” restituire una funzione strategica ad un’area urbana non è solo un sogno degli studiosi ma anche una necessità oggettiva ed un dovere per i responsabili della cosa pubblica”.
Da dove ripartire, che cosa fare e chi deve assumersi la responsabilità in termini operativi sono le tre domande di fondo alle quali bisogna rispondere con tempestività e senza equivoci in quanto Napoli è ormai all’ultimo bivio tra una definitiva marginalizzazione economica e sociale e la possibilità di ritagliarsi un ruolo nella nuova geo-politica delle grandi città italiane ed europee. Napoli è una città articolata e complessa nella quale i fenomeni economici, le problematiche sociali e l’organizzazione istituzionale e funzionale del territorio esprimono interrelazioni estremamente intricate il che significa che non si può intervenire in un settore senza valutarne le conseguenze negli altri. Definire dunque la sua nuova identità significa valorizzare le sue vere potenzialità e non inseguire il mito di una falsa modernità non sostenibile. Città del turismo? Città dell’industria innovativa? Città del terziario produttivo e della ricerca? Tutte ipotesi legittime con le proprie motivazioni e le specifiche problematiche. Ma se Napoli vuole accettare la “sfida della complessità” che già hanno affrontato con ottimi risultati tante metropoli europee – da Barcellona a Bilbao, da Valencia ad Istanbul a Dublino e Berlino – deve ritrovare la capacità di mettere in campo “un sogno razionale”, ovvero una grande ipotesi a misura dei fruitori del suo futuro. Sta di fatto che mentre Milano e Torino includono, Napoli espelle. Penso ai 5000 laureati che ogni anno abbandonano la città; penso ai tanti studenti che completano i loro studi universitari nei luoghi dove l’innovazione crea posti di lavoro; penso anche al crescente numero di medio-borghesi che si spostano al seguito dei loro figli o per condizioni di vivibilità migliori in altri Paesi ( vedi l’Algarve portoghese, le Canarie o la Lugano elvetica) sottraendo quote di reddito all’economia cittadina; penso agli intellettuali inseriti in circuiti internazionali ma estranei alla produzione culturale locale.
Altrettanto delicata appare la prospettiva dello sviluppo economico poiché la grande crisi degli ultimi decenni ha determinato nuove morfologie insediative decretate dall’innovazione tecnologica e dalla nuova qualità del mercato del lavoro. Di fatto alla rottura del tradizionale modello economico – territoriale si è sostituita una nuova “geografia della centralità e della marginalità economica” in cui il nucleo centrale della città cede alla “città diffusa” la responsabilità delle produzioni materiali mentre tende a monopolizzare le attività di servizio ed immateriali. La Napoli post- industriale si pone come un una conurbazione bifronte in cui il territorio si ridisegna in funzione del valore aggiunto che la città post-moderna attribuisce ai singoli spazi. Da una parte ritroviamo la “città dell’immaginario”, ovvero il nucleo centrale che da luogo fisico tende ad assumere i connotati di uno spazio simbolico deputato a competere sui mercati globali; dall’altra la “città della produzione”,quella dell’impresa manifatturiera e del lavoro operaio. Due realtà che tendono ad ignorarsi ma che risultano invece strettamente complementari in un grande progetto metropolitano.
E qui il discorso si collega immediatamente al secondo interrogativo di fondo, ovvero sul cosa fare. Innanzitutto rendere operativa lo Statuto dell’Area Metropolitana di Napoli che rappresenta l’indiscutibile innovazione istituzionale per l’avvio di qualsiasi progetto di sviluppo economico e sociale. E poi avviare la messa in valore di quel policentrismo funzionale che va definendosi in maniera spontanea sulla base delle potenzialità espresse dai singoli contesti che compongono l’area metropolitana. In altri termini non subire i processi in atto ma pilotarli in un quadro di compatibilità funzionale attraverso interventi infrastrutturali “di rete” e “di contesto”, sul piano dell’integrazione materiale ed immateriale dei singoli territori “omogenei”. Per fortuna qui non si parte da zero, basta fare l’inventario delle tante ricerche prodotte dagli Atenei napoletani e dalle associazioni imprenditoriali e che offrono precise indicazioni , da una parte, sulla grande questione della rigenerazione urbana della “città dell’immaginario” (basta qui segnalare l’ampio consenso al progetto dell’ACEN “Ricominciamo da tre”) e, dall’altra, sulla predisposizione di tutte le condizioni per rendere “accoglienti” per gli insediamenti produttivi le diverse sezioni della “città della produzione” dove il costo complessivo degli investimenti accusa un 20% in più rispetto alle aree del Centro-nord. Il tutto in un quadro dove la politica “del rammendo” (a dirla ancora con Renzo Piano) faccia da collante tra le due città dell’area metropolitana.
Infine una risposta chiara e forte va offerta alla domanda circa i soggetti che devono disegnare l’immagine della grande Napoli in questa fase storica. La risposta spesso corre il rischio di essere ridotta ad un semplice luogo comune. Si parla fin troppo spesso di costruire un “pensiero condiviso” da parte di tutta la classe dirigente napoletana: istituzionale, scientifica, culturale ed economica. Ma nei fatti tale prospettiva finisce per essere relegata all’applauso finale dei tanti convegni che si celebrano secondo una ritualità consolidata in città. Piuttosto l’amministrazione metropolitana si assuma la responsabilità di dar un immediato seguito operativo all’art. 31 dello Statuto dove si legge che “…va perseguito il più efficace raccordo tra pubblico e privato per il conseguimento dello sviluppo economico e sociale dei territori”. Sarebbe dunque opportuno insediare un “Comitato di sviluppo” riprendendo il dettato dell’art. 34 dello Statuto dell’Area Metropolitana di Milano dove si prevede che “…la città si confronti nell’elaborazione del Piano Strategico con le autonomie funzionali, con le forze economiche e sociali, con gli operatori di settore, con le associazioni culturali ed ambientalistiche”.
Il tutto per cogliere quella che risulta essere l’ultima grande occasione per inserire Napoli nell’irreversibile processo di internazionalizzazione delle maggiori città ed aree metropolitane europee.