Sociologo, politologo, saggista e
docente universitario (insegna Analisi dei dati all'Università di Torino ed è
presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume), nonché
editorialista per alcuni dei più autorevoli quotidiani e periodici italiani,
Luca Ricolfi indica per il riscatto del Sud una ricetta che sovverte e mette in
crisi gli stereotipi del meridionalismo militante, e talvolta lacrimevole, che
taglia la vicenda post-unitaria con l'accetta del manicheismo: vittime da una
parte e usurpatori dall'altra.
Ricolfi, che nel suo recente saggio "La società
signorile di massa", pubblicato alla fine di ottobre da La Nave di Teseo, analizza
le distorsioni e le disfunzioni di una società «in cui molti consumano e pochi
producono», propone un punto di vista caustico, forse perfino disturbante, ma
certamente lucido sui mali e sui ritardi del Mezzogiorno. Non una condanna
senz'appello per i figli dell'Italia minore che annaspa sotto la linea del
Garigliano, ma un monito che mette spalle al muro quel Sud piagnone che è la
prima causa dei suoi mali, lo inchioda alle proprie responsabilità e lo obbliga
ad una riflessione. E, perché no, ad un esame di coscienza e prima ancora ad
una presa di coscienza. Coscienza collettiva e condivisa, s'intende. Ché da un
nuovo idem sentire, sostiene, può originare il cambiamento.
Professore, il nostro resta un Paese a due velocità, con un baratro a separare ancora oggi, a più di 150 anni dall'unificazione, le due Italie in cui è divisa l'Italia. Di cosa ha più bisogno la parte più arretrata in questo momento storico? Quali sono le priorità, quali le emergenze?
«Avrebbe bisogno di qualcosa che, all'occhio di un sociologo, è del tutto improbabile: un cambio di mentalità, che può solo venire dall'interno e può solo essere lento. Detto questo, c'è però anche qualcosa che si potrebbe provare a fare dall'esterno: ad esempio occuparsi delle infrastrutture delle regioni meridionali (strade, ponti, scuole, dissesto idrogeologico ), magari senza affidare i lavori a imprese colluse con la criminalità organizzata, e soprattutto impedendo che le opere siano fatte con materiali scadenti e restino a metà, come è successo per tanti ospedali».
Questa condanna ad una subalternità che pare ineluttabile i meridionali se la sono procurata o l'hanno subita?
«Queste, a mio modesto parere, sono questioni indecidibili con gli strumenti delle scienze sociali, se non altro perché basate su concetti mal definiti o indefinibili. Può fare questa domanda a 100 studiosi, e vedrà che le loro risposte saranno diversissime, e terribilmente legate alle personali visioni del mondo di chi risponde».
Quanto incide sul sottosviluppo del Mezzogiorno la dolorosa zavorra della criminalità organizzata?
«Molto, a mio parere, perché le imprese che campano di favori e di intimidazioni tendono ad essere meno efficienti. Però voglio aggiungere che non occorre essere mafiosi per vivere di favori: l'economia assistita, che dipende dalle relazioni con la politica, esiste anche nel resto del Paese, e spesso non c'entra nulla con la mafia in senso stretto».
Una recente ricerca dell'Ocse evidenzia che, specialmente nel nostro Meridione, gli studenti italiani peggiorano per quanto attiene alla lettura. Al Sud il coefficiente si ferma a 453 contro il 484 del Centro, il 501 del Nord Est e il 498 del Nord Ovest (media Ocse: 487). E il ministro dell'Istruzione Fioramonti sostiene che «serve una scuola di qualità che torni a garantire l'ascensore sociale, dal Nord al Sud, e non un ammortizzatore sociale, perfino incompiuto». La perequazione tra l'Italia di su e quella di giù passa anche dai banchi di scuola?
«Eccome! La qualità della scuola al Sud è sensibilmente peggiore che al Nord, ma non è facile stabilire se questo dipenda da differenze di preparazione del corpo docente, o semplicemente dalla maggiore indulgenza degli insegnanti del Sud. Gli studi in questo campo mostrano che un 5 conseguito al Nord si tramuta magicamente in un 7 o un 8 al Sud. La mia impressione è che fra i due fattori, impreparazione e indulgenza, sia quest'ultimo quello più rilevante».
C'è chi sostiene che l'Unità abbia danneggiato il Mezzogiorno. Lei, invece, ha affermato che «il Sud non ha interesse a cambiare», in quanto «lo stato di cose gli permette di vivere al di sopra dei suoi mezzi» e ha parlato di «parassitismo economico». Qual è la verità?
«Credo che la verità storica sia a due facce, come spesso accade. La prima faccia è che il grosso del divario Nord-Sud non era preesistente all'Unità d'Italia, ma si è prodotto nei primi 80-90 anni, ossia dal 1861 alla seconda guerra mondiale: in questo senso è vero che l'Unità ha danneggiato il Sud. La seconda faccia, però, è che da quando – negli anni '50 e '60 – il benessere economico ha cambiato il volto (e i costumi) del Paese, il Sud ha puntato tutte le sue carte sui trasferimenti pubblici e non su una crescita autonoma. A mio parere, il parassitismo non è tanto un tratto atavico delle popolazioni meridionali, ma un modello culturale che le classi dirigenti hanno intenzionalmente promosso nelle popolazioni del Mezzogiorno per comprarne il consenso. Questo modello ha avuto un successo enorme, e oggi costituisce il principale ostacolo alla rinascita del Sud».
Nel suo libro "Il sacco del Nord", quasi dieci anni fa, lei parlò di "Questione settentrionale", sottolineando come la pubblica amministrazione trasferisca ingiustificatamente ogni anno ingenti somme (al tempo, circa 50 miliardi di euro) dalle regioni settentrionali a quelle meridionali, a causa delle distorsioni dovute alla differenza di spesa pubblica, di efficienza della pubblica amministrazione e del tasso di evasione fiscale, di modo che il tenore di vita medio dei cittadini sia più alto al Sud che al Nord. Insomma, il Sud è la zavorra dell'Italia?
«No, il Sud è una delle due zavorre d'Italia. L'altra ben più importante zavorra è l'impossibilità di fare impresa, un male che colpisce ancora di più le regioni del centro-nord».
Da allora, le cose sono cambiate?
«Non credo che, dai tempi del "Sacco del Nord", i flussi dei trasferimenti pubblici o la geografia degli sprechi e dell'evasione fiscale siano cambiate in modo apprezzabile».
Eppure da queste parti si dice che per far ripartire il Paese sia necessario far ripartire il Sud. Ed è diffusa la convinzione per cui la cosiddetta "spesa storica" finisca per affossare il Sud.
«Se la Calabria ha una sanità disastrosa e l'Emilia Romagna ne ha una efficiente non dipende certo dalla "spesa storica". È vero che la ripresa dell'Italia dipende dal Mezzogiorno, già solo per il fatto che non possiamo permetterci una produttività media così inferiore a quella degli altri Paesi europei (e il divario di produttività è in gran parte dovuto al Sud). Il problema, però, è come far ripartire il Sud in una situazione in cui le regioni più ricche non sono più in grado di trasferire altre risorse al Sud».
Che cosa può fare un governo illuminato per favorire una perequazione tra Nord e Sud?
«La prima cosa da fare, al Nord come al Sud, è efficientare la giustizia civile, disboscare la giungla legislativa, ridurre gli adempimenti che gravano sui produttori, eliminare dalla Costituzione le "materie concorrenti" fra Stato centrale e Regioni: insomma, far risalire all'Italia qualche decina di posizioni nella classifica di Doing Business, la graduatoria della Banca Mondiale sulle condizioni che, nei vari Paesi, permettono di fare impresa».
L'autonomia regionale potrebbe costringere il Sud a sganciarsi dalle attese assistenziali?
«Forse sì, io lo spero vivamente».
E l'Italia ha bisogno dell'autonomia?
«Dopo il fallimento di tutti i pasticciatissimi tentativi di decentramento amministrativo (leggi Bassanini, riforma del Titolo V, Devolution) credo sia diventato abbastanza chiaro che il decentramento ha responsabilizzato ben poco, e che il suo effetto principale è stata la duplicazione dei centri decisionali e di spesa. Arrivati a questo punto, io vedo solo due strade. La prima, puramente teorica, è tornare al centralismo, sopprimendo le Regioni e le relative duplicazioni di spesa. La seconda è trasformare tutte le Regioni in Regioni autonome, con una chiara delimitazione dei compiti rispetto a quelli dello Stato centrale e, naturalmente, con una forte autonomia di imposizione e di spesa. Questa seconda strada potrebbe responsabilizzare le classi politiche locali, ma avrebbe qualche chance di funzionare solo se la libertà dei poteri locali venisse limitata alla fissazione delle aliquote di imposta e alle scelte di spesa, entro un quadro normativo unico e rigido. Non dobbiamo mai dimenticare che la "creatività" legislativa dei poteri locali, nella misura in cui riversa sugli operatori economici una pioggia sempre cangiante di leggi, regole, regolamenti, adempimenti, è un formidabile ostacolo alla crescita».