In un libro di Achille Campanile, autore romano di origini napoletane, si legge: «Napoli è la mia nostalgia. Certe volte, quando sono in viaggio in città lontane, penso a Napoli con desiderio e non trovo nulla che le somigli. Allora, rientrato di notte in albergo, chiudo porte e finestre e dico: “Fo conto di essere a Napoli”».
Talvolta, ripensando a questo passo, mi viene da chiedermi se la nostalgia di Napoli non sia soltanto uno stato d’animo di chi dalla città è distante, ma anche – e più profondamente – uno squilibrio emotivo con cui devono fare i conti persino coloro che a Napoli ci vivono. Mi domando cioè se, per trovare qualcosa che somigli alla “propria” città, ciascuno di noi, pur abitandoci, non sia costretto a chiudere porte e finestre e dare corso all’immaginazione.
Mi sembra, infatti, che Napoli abbia una tale potenza come luogo dell’immaginario, collettivo e individuale, da sottrarre nitidezza e autenticità alla città del qui e ora. La vera Napoli è quella intimamente percepita, il contesto urbano e sociale in cui siamo immersi ogni giorno ne è solo un’imperfetta rappresentazione: siamo condannati a questa distorsione cognitiva.
La fortuna in età moderna e contemporanea di Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, è un esempio parossistico di tale distorsione: l’immagine del principe nel sentire comune è il sedimento di leggende e suggestioni che si sono coagulate attorno alla figura storica, la quale ne è risultata inevitabilmente offuscata, tanto che ci costa sforzo farla emergere come più autentica rispetto alla sua riduzione mitica. Naturalmente, siamo ben consapevoli di quanta parte abbia nel successo della Cappella Sansevero l’aura favolosa che circonfonde – e, sotto certi aspetti, anche per valide ragioni – l’attività del mecenate settecentesco o un capolavoro come il Cristo velato; riteniamo d’altronde nostro compito far capire che, oltre il mistero, c’è una sostanza senza la quale nessun mistero sarebbe potuto esistere. La sostanza è il progetto di bellezza che il principe di Sansevero, insieme ai suoi artisti, ha concepito e realizzato con operosità febbrile, non esente da ostacoli e affanni.
Il nostro impegno quotidiano è volto a preservare intatto il frutto di un lavoro compiuto con tenacia quasi trecento anni fa e, soprattutto, di farlo comunicare con le sensibilità del presente. Saremmo felici se ciò contribuisse a restituire un’immagine della città più complessa rispetto al “brand” che la sintetizza o, più ambiziosamente, a riformulare quel brand, sia pure in minima parte.
© Fabrizio MasucciDirettore del Museo Cappella Sansevero