«Deluso da de Magistris, senza umiltà si fallisce»
«Su Abc tradita l'idea originaria. E le occupazioni non vanno riconosciute, ma governate con responsabilità»
È stata, è il caso di dire, la fonte di tutte le rivendicazioni partecipative. Sette anni dopo, ancora da quella battaglia vuole ripartire Alberto Lucarelli, professore ordinario di Diritto pubblico alla Federico II e già assessore ai Beni comuni e alla Democrazia partecipativa.
«L'acqua pubblica costituisce uno dei punti fondamentali del contratto di governo M5S-Lega, per questo ieri (il 12 giugno) nel corso dell'incontro organizzato all'università Federico II di Napoli ho chiesto al presidente della Camera Roberto Fico tre impegni: il rilancio della Commissione Rodotà per introdurre nel nostro ordinamento giuridico la categoria dei beni comuni; Sollecitare da una parte una proposta legislativa che nell'arco di tre mesi dia attuazione al referendum del 2011 e dall'altra un testo di attuazione della direttiva Bolkestein a difesa delle coste e delle spiagge, per evitare che per i prossimi trent'anni il nostro litorale sia sostanzialmente privatizzato. Tre richieste di grande rilevanza per la vita pubblica del Paese che Fico ha recepito», sottolinea Lucarelli, che fu redattore dei quesiti referendari contro la privatizzazione dell'acqua.
Professor Lucarelli, con lei il Comune di Napoli è stato il primo in Italia ad aver istituito un Assessorato ai Beni Comuni. Quell'esperienza ha prodotto dei frutti?
«Penso di sì. Ha innovato moltissimo, introducendo nuove pratiche. Ma soprattutto è cresciuta la consapevolezza dei cittadini. Scrissi io quella delibera del maggio 2012 sui beni comuni. E prima avevo modificato lo statuto del Comune, inserendo all'articolo 3 la categoria dei beni comuni. Ma i beni comuni esistono soltanto se accanto al processo di democrazia partecipativa c'è la rappresentanza. Le istanze dal basso, è quello che certi movimenti e comitati non capiscono, devono trovare uno sbocco negli atti pubblici. La lotta tra partecipazione e rappresentanza è infantile».
L'esperienza dell'Assise di Palazzo Marigliano in questo senso fu un laboratorio.
«Sì, la mia sensibilità politica la devo tutta a Gerardo Marotta e Stefano Rodotà. Marotta mi volle presidente delle seconde assisi di Palazzo Marigliano perché vide in me una grande passione civica. Le nostre idee furono tutte prese da de Magistris, che trasformò quei contenuti alti nel suo programma politico».
Perché quel percorso si è fermato?
«Perché, pur essendo l'Italia una punta avanzatissima rispetto al tema, i beni comuni nel nostro ordinamento giuridico non esistono. Questa è un'anomalia. Eppure la formazione di queste istanze è interessante, in quanto parte dal basso, come avveniva per le leggi del Medioevo o per il common law. Ma non bisogna confondere i beni comuni con le occupazioni».
Ecco, le occupazioni. Che cosa pensa della delibera con la quale il Comune ha riconosciuto sette immobili di sua proprietà occupati da cittadini e associazioni?
«Le occupazioni, che sono un metodo superato, non vanno riconosciute. I processi vanno governati come si fece con l'ex Asilo Filangieri. Il caso del Teatro Valle a Roma è finito male proprio perché era un'occupazione. Nella gestione partecipata il Comune deve restare il dominus e deve assumersi la responsabilità di vegliare notte e giorno affinché i processi siano veramente partecipati. Se realizzate così, le occupazioni diventano oggetto di critiche, creano confusione e fanno un danno enorme alla battaglia per i beni comuni».
A proposito di spazi comuni, diverse aree di Napoli sono ostaggio della movida. Esiste, a suo avviso, una questione aperta sulla gestione degli spazi pubblici in città?
«Sicuramente. Non si può pensare che lo spazio pubblico diventi un luogo dove si calpestano i diritti degli abitanti o addirittura si commettano reati anche gravi. L'amministrazione deve dettare delle regole chiare, con ordinanze non repressive ma efficaci».
Perché uscì dalla giunta de Magistris?
«Mi dimisi nel momento in cui mi candidai alla Camera. Avevo fatto cose importanti: la trasformazione dell'Arin in Abc, la delibera, lo statuto. Sentivo l'esigenza di spostare tutto su un piano nazionale».
Era anche un po' deluso?
«Sono deluso, sì. L'ho detto anche al commissario di Abc e all'assessore Piscopo. La sfida dell'acqua pubblica era talmente delicata che andava curata molto di più. Era un'azienda speciale molto speciale, che prevedeva una partecipazione allargata. Invece ci ritroviamo da mesi con un commissario, cioè una direzione monocratica. L'esatto opposto di quello che avevo immaginato».
Perché è andata così?
«Bisogna avere grande passione, professionalità, determinazione e umiltà. Se uno di questi elementi manca, i risultati non si ottengono. Con la presunzione, specialmente se si vogliono fare cose innovative, si fallisce».