Nell'ultima indagine di Eromonitor International sul posizionamento delle maggiori città nella graduatoria relativa alla cultura, Napoli occupa il 32° posto complessivo il quale, però, contiene al suo interno una grande contraddizione, rappresentata da un quarto posto assoluto alla voce "densità offerta culturale" (ovvero il numero di spettacoli per 100 kmq) al quale corrispondono rispettivamente il 30° nella "dotazione di strutture", il 45° relativo a "librerie", il 77° nell'offerta di "concerti", l'84° nel settore "biblioteche".
Da ciò scaturiscono giudizi spesso ottimistici soprattutto dei "gestori" istituzionali della cultura locale e, talaltra, di segno diametralmente opposto da parte di osservatori esterni e di operatori più o meno interessati. Sta di fatto che l'incidenza complessiva sul PIL locale del grande patrimonio artistico e culturale della città, che pur alimenta un flusso di turisti in costante crescita, misura il 20% rispetto ai valori di Milano e Roma.
E' dunque utile porsi una domanda di fondo relativa al ruolo che hanno e che dovrebbero avere le strutture che producono sapere, cultura ed istruzione nella nostra città.
Napoli conta un articolato e consistente complesso di esponenti della cultura, dell'arte e della ricerca scientifica che opera a livelli di eccellenza, dalla notorietà internazionale, e che esprime l'ansia del cambiamento, l'attenzione per l'innovazione e la capacità di recepirla. E' un universo che rappresenta una costante nella storia locale e che spesso ha assicurato un collegamento con i fulcri della cultura europea. In effetti, nonostante i non pochi legami con alcuni elementi della cultura popolare, i circuiti generati da questa intelligencija appaiono il più delle volte sganciati dalla realtà locale, quasi corpi estranei che non attivano quel processo di identificazione positivo finalizzato allo sviluppo complessivo della città.
D'altra parte, al pur pregevole dato complessivo relativo alla produzione culturale non corrisponde, o almeno non è percepita dall'opinione pubblica nella sua dimensione innovativa, l'espressione di un "progetto" per la città.
In sostanza l'auspicata "transizione" della vita cittadina ai limiti di un declino irreversibile e le dinamiche culturali d'eccellenza sempre più estrovertite scorrono tra convergenze occasionali e scontri provincialistici, adottando come norma di rotta l'atavica indifferenza reciproca.
Se ne ricava in generale l'opinione che l'intreccio di stimoli attivati autonomamente da ristretti circoli culturali finisca per essere spendibile al massimo in un vacuo marketing internazionale descrivendo la città "presunta", piuttosto che attivare un circolo virtuoso con la città "reale". E qui nessuno meglio di un testimone della città reale, qual é Nino D'angelo, ha sintetizzato (in una recente intervista pubblicata su Nagorà) l'assenza a Napoli di una "visione" sistemica della produzione culturale: " Se ci fosse lo scambio culturale tra la borghesia ed il popolo per Napoli sarebbe una rivoluzione bellissima".
Con buona pace dei presunti innovatori e dei romantici conservatori.