Eccola, la curva della produttività del Paese. Chiarissima, indubitabile, brutale. La crescita straordinaria degli anni Cinquanta e Sessanta. La stagnazione dell’ultimo trentennio del Novecento. Il grande declino del Terzo Millennio.
Dietro questa storia esistono spesso fenomeni a scala internazionale. Come lo shock petrolifero degli anni Settanta, il crollo del Muro, la nascita dell’euro, Maastricht, la globalizzazione. Ma il fatto che il Paese abbia attualmente una delle più basse produttività al mondo induce a pensare che proprio in Italia qualcosa non sia andata nel verso giusto. Colpa degli uomini e delle donne che dopotutto furono gli artefici del “miracolo economico” e che ancora oggi si ingegnano nella ricerca di soluzioni alla crisi, magari emigrando in luoghi più propizi? O colpa delle scelte politiche di generazioni di governanti? Delle scelte politiche della prima Repubblica democristiana e consociativa? Delle scelte politiche del bipolarismo inconcludente della seconda Repubblica? Certo è che il compito di chi guida oggi il Paese è eccezionalmente difficile. Perchè si tratta di ribaltare la logica dell’intero sistema-Italia, abbandonando le derive demagogiche che l’hanno ridotto allo stato attuale, riformando le istituzioni, ammodernando la macchina pubblica, ricostruendo la scuola, incentivando merito e competenze. E perciò toccando grandi e piccoli privilegi.
Ma come reagirebbe il Paese? Difficile rispondere, perchè l’esperienza e la percezione della realtà che hanno gli italiani del loro passato e del loro presente è tutt’altro che omogenea. Perché quella fatale “curva della produttività” li ha coinvolti in modo assai diverso. La generazione del dopoguerra, degli attuali anziani, ha avuto la sorte di vivere tutta quanta l’età dell’oro, ricavandone vantaggi patrimoniali e sicurezze psicologiche. La generazione seguente, gli attuali cinquantenni, ha goduto in parte del benessere costruito dai padri e, grazie alle droghe della politica (spesa pubblica, indebitamento), non sempre si è accorta di quanto stava accadendo. Ma è stata la generazione dei giovani - i quarantenni, i trentenni, i ventenni - a nascere e crescere nell’Italia dei bassi salari, del blocco dell’ascensore sociale, del pessimismo culturale.
Ed è a questo paese esistenzialmente diseguale - fatto di vecchi benestanti e ceti medi impoveriti, di pensionati con qualche soldo sotto il mattone e giovani senza prospettive, di impiegati pubblici a basso reddito e disoccupati depressi - che il ceto politico deve proporre una exit strategy. Ovvero promesse concrete e prospettive allettanti, ma anche un richiamo alla realtà che (proprio per i “fortunati” e per i “garantiti”) potrebbe essere amaro.